Tu dovrai accettare la tua morte:
e le rughe prima della morte,
l’affanno, la mano che fallisce,
lo sguardo distratto delle donne,
e dovrai perdonare
gli errori di persona, i dialoghi
interrotti dal sonno –
ma sarà forse il gesto più leggero
d’una prostituta consumata,
o più triste passione,
sarà un gesto purissimo, staccato,
a riposare la tua vita sbagliata.
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Io mi divido
in giacca e calzoni e cintura
e ancora mi disgiungo
in cravatta e camicia
e mi scindo in cranio, in polmoni,
in visceri e pube,
e mi distinguo
in ogni cellula
che senz’amore s’accosta
ad altra cellula.
Così, casualmente, sussisto:
poi chiedo in prestito
la forza che congiunge
l’uno all’altro i miei volti possibili
all’improvviso sacramento
d’una chitarra,
al riso dell’amico,
allo squillo consueto del telefono,
nell’attesa distratta
d’una voce che perdoni la mia spalla,
la mia gamba, la mia dolce cravatta:
nell’oziosa attesa
del sacramento della nascita.
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Conosco la pace del pensoso dinosauro,
la coerenza delle zanne della tigre:
dove non c’erano parole
dove non ci sono parole,
nel centro del centro del centro
delle cose sorde, vitali, sanguinose,
dove si enumerano stomaco,
unghie, genitali,
intestini lunghissimi, zampe,
e le lacrime sono lacrime
per sangue che esce da carne lacerata,
per l’orrore forte della morte,
dove si redigono cataloghi
di urli, di minacce, di carne,
del male carnale solamente
dove non c’è amore né lussuria,
ma la voglia gagliarda della vita,
il centro dell’inguine
che matura insensato nelle cose.
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Scrivi, scrivi;
se soffri, adopera il tuo dolore:
prendilo in mano, toccalo,
maneggialo come un mattone,
un martello, un chiodo,
una corda, una lama;
un utensile, insomma.
Se sei pazzo, come certamente sei,
usa la tua pazzia: i fantasmi
che affollano la tua strada
usali come piume per farne materassi;
o come lenzuoli pregiati
per notti d’amore;
o come bandiere di sterminati
reggimenti di bersaglieri.
II
Usa le allucinazioni: un
ectoplasma serve ad illuminare
un cerchio del tavolo di legno
quanto basta per scrivere una cosa egregia –
usa le elettriche fulgurazioni
di una mente malata
cuoci il tuo cibo sul fuoco del tuo cuore
insaporiscilo della tua anima piagata
l’insalata, il tuo vino
rosso come sangue, o bianco
come la linfa d’una pianta tagliata e moribonda.
III
Usa la tua morte: la gentilezza
grafica gotica dei tuoi vermi,
le pause elette del nulla
che scandiscono le tue parole
rantolanti e cerimoniose;
usa il sudario, usa i candelabri,
e delle litanie puoi fare
un bordone alla melodia – improbabile –
delle sfere.
IV
Usa il tuo inferno totale:
scalda i moncherini del tuo nulla;
gela i tuoi ardori genitali;
con l’unghia scrivi sul tuo nulla:
a capo.
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Giorgio Manganelli ( 1922 – 1990)
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