Artista attivo sin dagli anni ’50 Enrico Colombotto Rosso è considerato uno dei maggiori protagonisti dell’arte del Novecento; artista poliedrico fu poeta e scrittore, scenografo e costumista, fotografo e illustratore, nonché pittore. La sua arte, espressionista e simbolista al tempo stesso muove dall’idea dell’uomo teso tra l’incerto e il nulla, tra figure spettrali, esseri mostruosi e creature deformi che sono essenzialmente traslazioni visive e visionarie di quel malessere esistenziale dell’individuo e della società in cui è inserito.

Nasce a Torino (con il fratello gemello Edoardo) il 7 dicembre 1925 da madre toscana e padre ligure. Fin da bambino manifesta la propensione per il disegno e studia da autodidatta le tecniche espressive. Bocciato per ben due volte all’ammissione all’Accademia Albertina, tra i 15 e i 19 anni frequenta una piccola cerchia di poeti e letterati, scrive poesie e diventa protagonista dell’ambiente culturale piemontese ; fu componente del gruppo torinese Surfanta (Surrealismo e fantasia)

Colombotto Rosso con Léonor Fini 1958. Foto di André Ostier

Nel 1948 incontra Mario Tazzoli, banchiere e appassionato di pittura, col quale stringerà una lunga amicizia e aprirà a Torino la galleria “Galatea” in via Viotti, nei locali dell’antiquario Filippo Giordano delle Lanze, dove verranno trattati artisti del calibro di Giacometti, Bacon, Balthus, Klimt e Schiele.

Colombotto Rosso, Prato fiorito con figure e gatto bianco
Sul finire degli anni ’40 inizia anche a viaggiare e, a Parigi, entra in stretta amicizia con Leonor Fini, cui rimane legato fino alla morte di lei, e stringe legami con Max Ernst, Stanislao Lepri, Dorothea Tanning, Jacques Audiberti, personaggi padroni già della scena internazionale e molto vicini a lui per la loro espressione artistica.

Colombotto Rosso, l’uovo, primi anni 70

Enrico Colombotto Rosso, donna in negligè, anni 60

“Bambola e arabeschi”
Nelle opere di Enrico Colombotto Rosso la bellezza risulta contaminata dal malessere, deformata dall’alito della morte: nella sua deformazione però essa si esalta in una sorta di elegante nobiltà rappresentativa; compaiono nelle sue opere megere e vergini, figure e volti maschili e femminili, bambole, gatti, esseri mostruosi su tutto ciò che era utile per imprimerne le tracce: tele, carta da pacchi o di giornale, spartiti musicali, fogli di carta velina. Pochi colori, generalmente cupi o semplici disegni raffigurano onirico e grottesco e si ritrovano anche nelle scene e nei costumi realizzati per alcune opere teatrali, tra le quali: “Danza di Morte” di Strindberg, “Il gioco del Massacro”, di Jonesco e “Salomè” di Wilde

Enrico Colombotto Rosso – L’urlo (1957)

Enrico Colombotto Rosso – Ecce Homo

Enrico Colombotto Rosso, diavolessa

Colombotto Rosso, Gatto azzurro

Colombotto Rosso, Volto

“La Madonna del gatto”, 1965
Nel 1991 Colombotto lascia Torino per stabilirsi definitivamente a Camino, in provincia di Alessandria, dove inizia una nuova vita di intenso lavoro artistico, occupandosi molto meno del mercato e delle mostre. Crea le sue opere nella misteriosa ed affascinante casa del Monferrato, coltivando il suo fantastico giardino sempre colmo di fiori bianchi , cimitero di ricordi e di gatti che lo hanno accompagnato nell’arte e nella vita quotidiana (celebri i suoi gatti raffigurati a china). Il poeta e amico Raffaele Carrieri la definì “un bordello di lusso, ma senza puttane”
È morto il 16 aprile 2013, all’età di 87 anni, all’ospedale Santo Spirito, di Casale Monferrato dove era stato ricoverato per disturbi cardiaci.


“Questo giovane cacciatore di scimuniti non si inginocchia davanti alla miseria umana, non la teme, non la divide, non l’ama, non l’intende, dunque non può redimerla nella finzione dell’arte, ma è ossessionato da quell’odor di morte, di tessuti consunti, di nosocomio, di aborti nascosti, di eredità maledette che si sprigiona dai bugi in fermento, dai sangui pigiati, dai terrori panici, dai sogni che si ha paura di non dimenticare, e la sua pittura è lo specchio, di quell’ossessione, rigorosamente fedele … Enrico, tuttavia, è un amante della gioia. Egli ha, inoltre, una vera passione per le maschere, e io sospetto un gioco egoistico, sebbene di qualità rara. Una giornata di conviti a Parigi o a Roma, e una giornata in un manicomio pieno d’ululati ad osservare e annotare, fanno un
medesimo gioco, quando sia un medesimo giocatore che convita e annota.”
Guido Ceronetti, Enrico Colombotto Rosso, in «Petronio», 1960.
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