Marco Gastini, nato nel 1938 a Torino, cresce nell’atmosfera del laboratorio di marmista del padre dove avviene la prima formazione attraverso la conoscenza diretta degli artisti che frequentavano il laboratorio, ed il vivere con il materiale, il toccarlo, il respirarlo ed il lavorarlo.
Dopo aver compiuto gli studi artistici a Torino, prima presso il Liceo Artistico e poi alla Scuola di Pittura dell’Accademia Albertina, muove i primi passi verso il superamento della stagnazione della pittura informale, per approdare alla pittura fatta di tracce e gesti tipici dell’arte minimale, per poi diventare analitica; poi, verso la metà degli anni ’70 il salto verso una visione non più classificabile entro le tendenze codificate del momento.

Dal 1966 al 1985 insegna al Liceo Artistico, vivendo intensamente gli anni pieni di fermenti, di idee e di utopie che attraversano la città nella seconda metà degli anni ’60.
Negli anni ’67-’68 realizza quadri dipinti a spray, scorrimenti di flussi vitali continui sopra le superfici neutra delle tele, che espone alla Galleria Il Punto di Torino nel 1968. Nel 1969 è presente al Salone Annunciata di Milano con una mostra eminentemente spaziale dove la pittura fatta di flussi è su plexiglas trasparente in lastre e cilindri.
Il coinvolgimento dello spazio, sia mentale che fisico, come luogo di azione della pittura, lo accompagnerà sempre.
Di quegli anni sono le prime fusioni in piombo e antimonio su parete, presentate anche nel 1970 a Modena ad “Arte e Critica ‘70”.


Dopo la personale alla Cirrus Gallery di Los Angeles nel 1975 ed alla John Weber Gallery di New York nel 1977, è a Milano nel 1978 allo Studio Grossetti. Un anno dopo di nuovo a New York da John Weber con due mostre con lavori direttamente a parete che occupano l’intero ambiente della galleria, in cui tutti i tempi di lavoro vengono messi in discussione attraverso il coinvolgimento di tutto lo spazio a disposizione.
Sono sempre primarie ed essenziali le nozioni di spazio, energia, tensione, coinvolgimento, grado di immersione, attrazione e repulsione.
In questi anni l’uso del colore fa la sua comparsa insieme ai materiali più differenti, contenitori di energia e di pittura. Subentrano nei lavori di Gastini i materiali più disparati: la pergamena, plasticamente sospesa a generare una sottile tensione ; vetro e metalli tra cui ferro, rame e stagno ; elementi organici come il carbone e vegetali simili a carrube che ricordano, nella sagoma, le virgole a carboncino . Vi sono poi materiali usati, consumati, come il legno delle ciarlate, le travi che sostengono i tetti delle case di montagna: indicatori di tensione, colpiscono l’artista per la loro storia, per l’essere segni modellati naturalmente dal tempo e dall’azione dell’uomo. Di legno anche le cassette, le traversine dei binari, oppure le tavole tridimensionalmente assemblate a comporre un paravento o, in alternativa, un retablo; alle volte entrano nel dipinto una mensola , un’intera finestra , una porta. Simili pannelli mobili suggeriscono la moltiplicazione dei livelli di lettura e delle superfici della pittura, soggette a essere osservate sotto una luce sempre nuova.
Come gia’ nel 1987 a Castel Burio (Asti) e a San Giminiano nel 1988, dove i lavori escono all’esterno invadendo lo spazio architettonico ed urbanistico, cosi’ nel 1997 a Siena e’ presente con “Scommessa”, una mostra dove i lavori sparsi nella citta’ colloquiano con la storia, l’arte e l’atmosfera magica del luogo.
Nel 1998 l’intera Orangerie del Castello Weimar accoglie una sua importante mostra: una grande installazione che dilaga dialogando con tutto lo spazio e le sue presenze .




Le opere degli anni Novanta si distinguono per l’evidente impiego del ferro, sotto forma di tondini e altri elementi di scarto industriale recuperati nei cantieri, che recano in sé un’eco del lavoro dell’uomo, della forza cui sono stati sottoposti: proprio in questo risiede la loro energia intrinseca. Gli elementi si rincorrono, talvolta danno vita a sculture che fronteggiano la tela , tracciano un percorso, una scrittura che attraversa unendo gli elementi sparpagliati della composizione.


Dal 2005 l’artista torna a ragionare soprattutto sullo spazio della singola grande tela. Fra i colori, è ormai preminente il blu, un pigmento blu oltremare distribuito con la spugna, volatile e dal timbro seducente, accostato al nero: insieme, si staccano dall’impasto di bianchi spalmato con le mani e si protendono idealmente verso gli elementi tridimensionali, pure presenti. Frequente diventa infatti l’impiego dell’alluminio, fuso in calchi, e anche dell’ardesia e del vetro, materiali che nei lavori più recenti sono conficcati di taglio nella tela. La pittura è ovunque nello spazio, ma si fissa nella percezione di un istante sul quadro, immobilizzata da lame di pietra che paiono appena scagliate; si addensa in zone di colore e ombre di materia, e la sospensione aerea di quegli attimi trattenuti è nei titoli inventati dall’artista, sino agli ultimi lavori. Muore nel 2018.


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