Da bambina piansi copiosamente per sensibilità eccessiva e per rabbia, poche volte per capriccio, e quelle lacrime sono anch’esse finite in un baule di ricordi, insieme a momenti gioiosi, coi balocchi corrosi dal tempo e dalla polvere del solaio. Non ho nostalgia dell’infanzia, a parte la voce di mia madre, non ho nessun ricordo che desidererei rivivere, nemmeno per le nuvole soffici e dolci su stecco che vendevano al luna park e per l’amicizia troppo fugace del pesciolino rosso o dei criceti di cui piangevo a scroscio la morte prematura.
I giochi li inventavo sul momento, escludendo le bambole, un po’ di terra qualche scatoletta vuota, carta pongo e dei colori, e uscivan fuori pomeriggi creativi e mani sudice da lavare con sapone e insistenza. Mi defilavo quasi sempre dalla tribù della piazza, non amavo i giochi di gruppo, preferivo fantasticare nella solitudine del cortile e confidare a quell’albero gigante, grande amico saggio e muto, ogni mia inquietudine.
A scuola poche similitudini ed empatie da salvare, e che gran pena sopportare quelle anime da me così diverse, esuberanti, altezzose, asfissianti, i discorsi di bambine e ragazzine petulanti, talvolta arroganti che vantavano cose impossibili da verificare; meglio parlare col cane che aveva preso la priorità nei miei affetti e che attendeva il mio ritorno scodinzolando contentezza, sempre pronto come complice nel far sparire metà del mio pranzo in tutta fretta, perchè proprio non andava giù la bistecca.
L’adolescenza fu greve battibecco tra rifiuti categorici a un vivere diverso da come mi fu imposto, ma pian piano edificai un parcheggio ideale tutto mio dove sistemare i desideri nell’attesa di realizzo, sperando in una parentale resa che mi desse il via libera, ma tutto veniva sempre catapultato a quei famosi diciotto anni, lontano orizzonte tra un oceano di scalpitìo nervoso, calmato dalla lettura e dai vinili per cui spendevo buona parte delle mie esigue finanze, rimpolpate talvolta dai nonni per mia lagnosa insistenza.
Tristi muri di gomma e le prime deludenti esperienze, poi anche le prime mazzate, amicizie e affetti finiti nel nulla, alcuni giusto il tempo di un’estate e così il grande orologio già divorava tutta la parte più fanciulla del mio percorso; anche il cane traslocò in cielo dopo una malattia che non perdonai a dio, e forse fu proprio da quel giorno che non credetti definitivamente più alla sua millantata esistenza.
Maturità scolastica e anagrafica, pensai finalmente due denti tolti, pareva dovesse cambiare il mondo, invece poche furono le vittorie ottenute e l’esubero di mete stabilite rimase a consumar sulla brace; quante volte imprecai i santi per non esser nato maschio, almeno avrei probabilmente evitato i veti più urticanti, francamente desueti per l’epoca che si era spalancata, nessun coraggioso lamento era inteso, non s’inteneriva la dura scorza paterna, gelida e pungente come galaverna.
Solo la bontà di mia madre mi concedeva qualche eccezione alla regola, giusto perchè realizzava attraverso me ciò che le era stato negato molto tempo prima.
Fu l’auto a dare una svolta alla questione, quel foglio rosa era un’apripista poi il gran giorno, neanche un minuto di esitazione, saltai su e affrontai la strada con l’emozione di una conquista epocale, un’alta vetta da cui far rotolar giù lo spirito in allegria. L’abitacolo della mia auto lo vissi per un po’ in goduriosa solitudine, la strada era libertà, la musica fedele amica, poi venne tutto il resto, inutile che lo dica, l’anarchia più totale, un esplosione di vita vissuta a morsi tanta era la fame, a modo mio, tranne che per lo studio e il lavoro dove ancora vigevano le leggi loro.
Ma mi fermo qui per ora, tra tanti omissis che riempirebbero un’enciclopedia, per non tediare chi legge questa spremuta di uno spicchio di vita e anche perchè alcuni particolari non li rivelerei neppure sotto tortura, non per creare un alone di mistero o alimentare curiosità, ma come per tutti i succhi, nel filtro restano i semi la polpa e la buccia . Da conservare a parte.
-Daniela Cerrato
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