La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell'eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po' il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità. ( Albert Einstein )
Durante la lettura del libro illustrato ” Luoghi sacri abbandonati in Piemonte” di Gian Vittorio Avondo, Edizioni del Capricorno, 2022 mi ha colpito tra gli altri un luogo che credo andrò a visitare di persona, magari nella prossima primavera.
Si tratta di un cimitero, e precisamente quello di Fiorano Canavese. Di norma si conosce l’antichità sulla base delle tombe e degli oggetti che vi furono collocati e tanto più è remota la storia, tanto più sono importanti dal punto di vista documentario questi reperti. Le civiltà, sovrapponendosi le une alle altre hanno cancellato le tracce dei loro predecessori, tuttavia si sono conservati più o meno a vista i luoghi di sepoltura. Se nei cimiteri monumentali, come quello di Torino e Oropa ( Biella), le cappelle di famiglia emergono isolate e distanti le une dalle altre, nei cimiteri rurali sono collocate una accanto all’altra come cortine edilizie.
foto del camposanto di Fiorano prese in rete
L’antico camposanto a cielo aperto di Fiorano Canavese, in provincia di Torino, è una bellezza pacata e riservata pervasa da un’aura romantica, più collegabile all’ Inghilterra che non all’Italia. Venne scelto questo luogo di sepoltura dopo che l’editto napoleonico del 1804 stabiliva per legge che le tombe venissero poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali evitando discriminazioni tra i morti. Per i defunti illustri, invece, c’era una commissione di magistrati a decidere se far scolpire sulla tomba un epitaffio. Questo editto aveva quindi due motivazioni alla base: una igienico-sanitaria e l’altra ideologico-politica. La gestione dei cimiteri esistenti veniva ovunque definitivamente assegnata alla pubblica amministrazione in tutti i luoghi dove fu esteso, e non più alla Chiesa. Fu inoltre vietata, salvo eccezioni, la sepoltura in luoghi cittadini e all’interno delle chiese. Le prime inumazioni nel cimitero di Fiorano avvennero a opera non ancora completata nel 1834 in seguito a una morìa improvvisa di 42 persone che non potevano essere sepolte altrove. Il Fiorentino è un grande affioramento roccioso che sovrasta imponente il paese di Fiorano ed è un luogo di grande valore non solo in termini paesaggistici, ma anche naturalistici e storici. Da lì si godono panorami bellissimi come quello dal belvedere di fronte alla chiesa di San Grato, o quello, a sfondo del cimitero che, oltre allo spettacolo verde di gaggie e bossi, inquadra, nel silenzio dei campi e delle vigne, Cavallaria, Mombarone e l’abbraccio morenico della Serra. Funzionò fino al 1932, anno in cui le esumazioni furono spostate nel nuovo cimitero; da quella data cadde dopo pochi anni in una condizione di abbandono e nel 1994 fu anche oggetto di vandalismo da parte di profanatori di tombe.
Per fortuna, nel 2003, grazie ad un progetto di Regione Piemonte e Comunità europea, sono stati eseguiti lavori di restauro conservativo che hanno permesso di salvaguardarlo rendendolo un piccolo museo a cielo aperto. E anche graie alla studiosa Maria Paola Capra che nel 2005 accese i riflettori con il suo splendido libro “Fiorano dalla collina di Fiorentino” ricostruendo attraverso gli epitaffi, le lapidi e le fotografie che si sono conservate, le antiche storie fioranesi hanno creato una sorta di Spoon River canavesana. Grazie a questo grande lavoro di ricerca appassionata dell’autrice, anche il canavese ricorda una variegata galleria di suoi personaggi dai vari mestieri, dal contadino, al prete, al muratore, al commerciante di bestiame ma anche storie di donne morte di parto, di bimbi annegati in Dora, dei tanti morti per le epidemie di spagnola e di colera.
Tra le lapidi spicca il monumento a Camillo Mola di Larissè che si spense quindicenne a Torino, il 23 ottobre 1900, e, per sua volontà, fu sepolto a Fiorano. Lo accolse la tomba di famiglia collocata contro il muro di cinta, proprio di fronte all’ingresso, secondo la consuetudine che riservava ai nobili e alle famiglie più in vista anche la parte migliore dei cimiteri. “Caro a quanti lo conobbero ritornò alla diletta terra. Ave desideratissimo. Te rivedremo in quel regno che eterno dura”, reca scritto l’epitaffio inciso sul monumento funebre, un breve obelisco culminante con la rappresentazione di una moderna pietà in cui il viso della madre è chino su quello del figlio che mestamente e delicatamente sorregge. Fu lo scultore Cesare Felice Biscarra, amico di famiglia, che immortalò nei visi del gruppo scultoreo proprio i tratti di Camillo e della mamma dolente, la contessa Laura Pelletta di Cortazzone, “provvidenza dei poveri e degli ammalati di Fiorano”, che lo raggiunse il 3 luglio 1903. Ancora oggi, nel silenzio della collina, oltre l’erba alta e le sterpaglie, madre e figlio spiccano commoventi nella bellezza eterna di un dolore che ha finalmente trovato pace.
Imbrattato quadro di Monet al museo di Postdam, attivisti lanciano purè di patate contro “Il Pagliaio” Deve ancora essere valutata l’entità degli eventuali danni.
Questa la notizia con tanto di filmato comprovante l’atto vandalico.
Otto giorni fa a Londra presunti ecologisti (??) hanno lanciato salsa di pomodoro contro il quadro “I Girasoli” di Van Gogh. Ora dico io, quando vado in un museo di solito vedo lo staff della sicurezza che scandaglia per le sale e ti osserva anche quando vai verso la toilette. Possibile che accanto a dei capolavori lascino tempo e spazio a dei malati mentali per delinquere? persino in un piccolo museo a volte vengono obbligatoriamente fatti lasciare zaini e borse nelle cassette di sicurezza, possibile che non vengano adottate ovunque le stesse regole? o c’è da dubitare che ci sia un basista che consente queste bravate per un momento di folle notorietà delinquenziale? Iniziano a valutare i danni, ma a questi geni del purè infliggerei per direttissima una pena di almeno due anni senza sconti, ma a lavorare davvero fino all’estinzione del debito del danno causato.
articolo a cura di Mara Martellotta , giornalista La mostra intitolata “Frida Khalo- Il caos dentro”, ospitata al Mastio della Cittadella di Torino dal 1 ottobre al 26 febbraio prossimo, si concentra su di una figura centrale dell’arte messicana, la pittrice latinoamericana più celebre del Novecento. Con il marito Diego Rivera, uno tra i più […]
Tyeb Mehta è nato il 26 luglio 1925 a Kapadvanj, nello stato Indiano del Gujarat . A 22 anni, durante i moti del 1947 a Mumbai, dove soggiornava , ha assistito alla scena di un uomo lapidato a morte dalla folla; questo episodio non solo fu fissato su disegno nell’immediato, ma ebbe un impatto permanente sul suo lavoro, portandolo a rappresentare la drammaticità in modo anche inquietante. Partì per Londra nel 1959, dove ha lavorato e vissuto fino al 1964. Successivamente, visitò New York, avendo ottenuto una borsa di studio da John D. Rockefeller. Mehta è stato influenzato dall’espressionismo, dalle opere di Francis Bacon e di Barnett Newman, ma nel periodo newyorkese il suo lavoro ha subito l’influenza minimalista. Ha girato un corto di pochi minuti, “Koodal”, a Bandra, con cui ha vinto il Premio della Critica nel 1970.
In India Mehta è diventato membro di una nuova generazione di artisti definiti Progressive Artists. Morì il 2 luglio 2009 a Mumbai, in India. Le opere di Mehta sono conservate nelle collezioni di Kiran Nadar Museum of Art e nella Galleria Nazionale di Arte Moderna di New Delhi. Soggetti piuttosto comuni nelle sue opere sono sagome di tori, conducenti di risciò,fin quando arrivò alla serie “DiagonalI” nel 1970, dopo che casualmente, in un momento di crisi creativa, lanciò una striscia nera per la lunghezza della tela; da qui nacquero una serie di figure immerse nel colore in diagonale dove astratto ed espressionismo si combinano.
Tyeb Mehta ha conservato il record del prezzo più alto di una pittura Indiana, venduto all’asta per 317.500 dollari presso Christie’s nel 2002. Nel Maggio del 2005, la sua tela Kali è stata venduta per 230.000 dollari alla casa d’aste indiana Saffronart ‘s. Nel 2008, un altro dei suoi dipinti è stato aggiudicato per 2 milioni di dollari; insomma ha notevolmente alzato l’interesse per l’arte Indiana dal mercato internazionale.
Il Parco Güell a Barcellona è un’area pubblica inaugurata nel 1924 di circa 17 ettari voluta dall’impresario Eusebi Güell e realizzato dal geniale architetto Antoni Gaudí.
Antoni Gaudì
Inizialmente doveva essere parte di un progetto residenziale molto più ampio, infatti avrebbe dovuto occupare l’intero pendio della Muntanya Pelada, l’area alle spalle del centro di Barcellona. L’idea prevedeva la realizzazione di un sobborgo che unisse la periferia tranquilla ai servizi della vita cittadina; il progetto comprendeva 60 lotti destinati ad altrettante abitazioni, dotate di aree verdi, scuole, una chiesa e un grande parco. Purtroppo l’idea venne considerata troppo all’avanguardia per l’epoca, per cui Gaudí ridimensionò il suo progetto, limitandolo a tre abitazioni di cui una destinata alla sua famiglia.
Al termine dei lavori però, il parco cominciò a suscitare la curiosità di molti, più di quanto Güell e Gaudí avessero sperato, e presto divenne un luogo di svago, luogo per eventi sportivi e culturali, aree di ritrovo di famiglie e turisti nei giorni festivi.
Le sue architetture non contrastano con la Natura circostante, anzi si integrano bene grazie alle forme morbide delle costruzioni che richiamano l’andamento serpentino degli elementi naturali; sono tondeggianti, senza spigolature e hanno i colori vivaci delle ceramiche e dai mosaici realizzati con tessere di maioliche. La combinazione dei diversi materiali rende armoniosamente vivo il contesto
Gaudì pur apprezzando il mondo classico ruppe decisamente con lo stile sino ad allora in voga e ne rielaborò i dettagli in chiave ludica dal forte impatto visivo. Basti pensare alle architetture multiformi delle abitazioni poste all’ingresso del parco, con muratura realizzata con tasselli marroni, che in lontananza appaiono di un color biscotto, degno delle favole dei fratelli Grimm. Accanto svetta una torretta alta circa 10 metri decorata da maioliche bianche e blu , una spirale che vigila sul parco. Sfruttò la differenza di livello del declivio naturale per realizzare una grande terrazza dalla quale osservare l’intero parco e il centro di Barcellona, fino al mare , chiamata Plaza de la Naturaleza. Questa ricopre una superficie ovale di 86 metri di lunghezza e 43 metri di larghezza, il cui parapetto serpentiforme si trasforma in sedute dai colori sfavillanti dati dalle maioliche, permettendo ai visitatori di godere del panorama e di assistere agli eventi in corso. L’intera struttura regge grazie alle 86 colonne doriche che compongono la sala ipogea alla base, tanto fitte da dare l’impressione di essere circondati da una selva di alberi secolari. Dopo la morte di Güell e in seguito al trasferimento dello stesso Gaudí, i suoi eredi decisero di cedere il parco al comune di Barcellona, affinché diventasse di proprietà pubblica. Da quel giorno la fama di questo luogo magico e pieno di colori crebbe a tanto da ottenere l’inserimento nei beni patrimonio dell’UNESCO nel 1984.
Naturalmente è uno dei luoghi più visitati dai turisti che possono percorrere sentieri snodati come fiumi, dove le colonne sono inclinate o attorcigliate come alberi, e gli spazi interni sono simili a grotte . Ovunque Gaudì ha assicurato la fioritura delle specie autoctone di piante aromatiche mediterranee: palma, carruba, pino, cipresso, fico, mandorla, prugna, lavanda, timo, salvia, mimosa e magnolia. Un luogo incantevole per ogni età.
Manolo Valdés nasce a Valencia, Spagna, l’8 marzo 1942. Nel 1948 entra nella locale scuola dei Domenicani dove studia fino al conseguimento del diploma di maturità. Nel 1957 si iscrive alla Scuola di Belle Arti San Carlos di Valencia, che tuttavia lascia due anni più tardi per dedicarsi alla pittura. Nel 1962 tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Nebli di Madrid e nel 1964, assieme a Jean A. Toledo e Rafael Solbes, fonda il gruppo Equipo Cronica. Nelle loro opere vengono combinati elementi della Pop Art inglese e americana ispirandosi inoltre alle opere di maestri come Pablo Picasso e Diego Velásquez.
Toledo lascia il gruppo nel 1965, ma Valdés e Solbes partecipano a numerose altre mostre, tra le quali “Kunst und Politik” esposta a Karlsruhe, Wuppertal e Colonia nel 1970. Il gruppo si scioglie con la morte di Soldes nel 1981.
Valdés nel 1991 espone alla Marlborough Gallery di New York e nel 1995 tiene la sua prima personale in Italia alla galleria d’arte Il Gabbiano, a Roma. Nel 1999 assieme a Carles Santos ed Esther Ferren, rappresenta la Spagna alla Biennale di Venezia. Nel 2002 il Guggenheim Museum di Bilbao gli dedica una retrospettiva. Il suo lavoro è un meticoloso lavoro di fusione di dettagli catturati da dipinti di grandi maestri come Matisse, Manet, Francisco Goya, Pablo Picasso, ecc., con cui forma uno stile personale che pratica una revisione storica senza annullare il valore dell’originale. Al suo attivo anche numerose sculture, raffinate e ispirate aispirate a Diego Velázquez; l’artista attualmente vive e lavora a New York.
Valdés è un artista poliedrico, la sua ricerca espressiva e formale è in grado di unirsi alle voci provenienti dal passato della storia dell’arte. Il linguaggio visivo vitale, lo studio della materia, il personale realismo pittorico, il ricorso a stratificazioni multidimensionali e le opere in grande scala, sono solo alcuni dei tratti distintivi di Valdés che rendono il suo stile immediatamente riconoscibile. Le sue opere mostrano quanto la passione per l’arte lo spinga a cercare nuova espressività testando materiali inusuali, colori pastosi e bituminosi, dettagli luminosi e sostanze grezze che imprimono oggetti materici e corposi sulle tele; con la lavorazione del legno, del prezioso alabastro e la fusione di resine e bronzo riesce a dar vita a originali sculture.
L’esposizione del 2021 “Manolo Valdés. Le forme del tempo”, ha riportato l’artista spagnolo a Roma dopo ben 25 anni di assenza; esposte una settantina di opere tra quadri e sculture in legno, marmo, bronzo, alabastro, ottone, acciaio, ferro, alcune delle quali di imponenti dimensioni , provenienti dallo studio dell’artista e da autorevoli collezioni private, una traccia del percorso creativo di Valdés dai primi anni Ottanta.
Il 2022 lo vede presente in Italia, dal 18 aprile al 27 novembre presso la sede veneziana della Galleria d’arte Contini.
Hannu Palosuo è nato nel 1966 a Helsinki in Finlandia. Nel 1989 è andato a Roma con una borsa di studio e ha frequentato la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi “La Sapienza” con l’indirizzo di “Storia dell’Arte Moderna” e l’Accademia di Belle Arti. Dopo qualche anno si è trasferito stabilmente a Roma dove vive e lavora. Numerose sono le esperienze di lavoro artistico in Europa e nel resto del mondo; Palosuo diventa artefice di una moderna figurazione che rivela una tematica ricorrente e pur sempre attuale. Sull’evocazione della memoria e del ricordo, l’artista rende protagonista la quotidianità, con toni contrapposti ma concordanti per evidenziare il positivo e il negativo dell’immagine, la presenza e l’assenza. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 2009, 2011 e 2013, alla Biennale del Cairo nel 2010 ed alla Biennale di Curitiba nel 2017 e 2019. Le opere di Palosuo prendono ispirazione anche dai molti viaggi compiuti dall’artista in giro per il mondo, in Asia, in Africa, in Medio Oriente e in Brasile.
Hannu Palosuo
Negli ultimi dieci anni l’artista ha cambiato motivi ma non ha mai abbandonato la parte più essenziale, il senso di qualcosa che non c’è. Nelle sue opere c’è sempre una sedia al posto di un “qualcuno”, ed è sia metafora che riguarda l’umanità, ma anche richiamo di un elemento statico, la memoria. Mentre i nostri occhi sono impegnati a guardare, le nostre anime iniziano a ricordare e inconsciamente riportano qualcosa delle nostre stesse vite nei suoi lavori. Non solo guardiamo il soggetto dei suoi dipinti, ma contemporaneamente ritroviamo una parte di noi stessi.
I sentimenti sono trasferiti sulle sue tele, il suo stile è bello, le immagini sono visualmente avvincenti. La semplicità lungo le incontrollabili ombre e il sentimento dell’atemporalità possono ricondurre l’interpretazione al concetto scandinavo o addirittura russo del tempo dilatato, esprimendo sentimenti profondi.
Palosuo gioca spesso con l’illusione e lascia che la materia prima, la stessa tela, sia come uno strato del dipinto. La trasparenza nei suoi dipinti è sempre fortemente accentuata, i suoi obiettivi, con silhouettes su una tela grezza, danno modo allo spettatore di proteggere il loro stesso significato. La trasparenza e il vuoto sono, comunque, solo l’altra metà del paradosso, perché i suoi lavori sono d’altro canto pieni di forti riferimenti. Nei lavori di Hannu la bellezza è sottratta, perché il loro spirito è legato ad una specie di consiglio; sembra dire “Guarda di nuovo, nota e ripensa”.
“Quando dipingo non ho nessun garbo professionale, nessuna gentilezza, non ho regole – affermava. – Non ho mai seguito corsi regolari di pittura, né avuto un’educazione artistica, accademica. La mia insicurezza tecnica, il mio non avere un metodo, è diventato un aspetto del mio lavoro. E questo mi ha aiutato moltissimo, perché, al di là della tecnica, l’idea è sempre molto chiara”. Carol Rama
Carol Rama (1918- 2015) è un’icona torinese sui generis che ha saputo rendere la pittura rude, scabrosa, fisica, anticonformista, dalla sua adolescenza e senza alcuna formazione accademica.
La sua produzione artistica si può suddividere in quattro fasi : gli acquerelli degli anni trenta-quaranta, i dipinti della breve fase di adesione al Mac (Movimento per l’arte concreta) degli anni ’50, i collages e le tecniche miste con un notevole uso del caucciù degli anni ’60 e ’70, la figurazione legata al tema della mucca pazza e al riuso di carte del catasto o fogli da manuale di disegno che contraddistingue gli anni ’90 fino al termine della sua carriera. Carol Rama, al di là delle testimonianze fotografiche che la vedono in compagnia di nomi illustri del ventesimo secolo, tra cui Man Ray, Andy Warhol, Meret Oppenheim, ebbe una cerchia di estimatori e interlocutori piuttosto ancorata all’ambiente torinese: Francesco e Felice Casorati, Carlo Mollino, Edoardo Sanguineti, Paolo Fossati e i galleristi che ospitarono le sue mostre.
Carol Rama-Venezie-1983-
Donna, in una cultura egemonicamente maschile come quella italiana, anticonformista molto prima che esserlo fosse di moda, non ebbe un inizio di carriera facile: pare che la sua prima mostra di disegni e acquerelli nel 1945 venne censurata ancora prima di aprire.
Carol Rama, pissoire acquerello su carta 1941
Nel 1948 fu invitata alla Biennale di Venezia, la prima dopo la guerra. Vi farà ritorno nel 1950 e ’56 e poi ancora nel ’93, invitata da Achille Bonito Oliva che le dedicò una sala personale, e infine nel 2003, nella 50a edizione diretta da Francesco Bonami, dove fu premiata con il Leone d’oro alla carriera.Ha definitivamente acquistato fama internazionale con la mostra monografica (200 opere) organizzata nell’ottobre 2014 dal Macba di Barcellona, proseguita nella primavera 2015 al Mam di Parigi, che andrà a Helsinki e Dublino per approdare alla Gam di Torino a fine 2016. Nelle su eopere compaiono dentiere, scopini da cesso, pennelli da barba, pissoirs, scarpe, nudi femminili intenti a procurarsi piacere o a brandire aggressivi serpenti fuoriusciti da ani e vagine: c’era di che scandalizzare l’etica perbenista borghese, e ancora di più il sostrato fascista di una visione del mondo in cui la donna e il corpo potevano solo essere idealizzati come elementi della riproduzione e della perpetuazione etnica.
Certi suoi acquerelli possono evocare lo stile di Egon Schiele ma il tratto di Rama è più morbido e meno caratterizzante in senso individuale al tempo stesso. Ciò che qualifica lo sguardo di Rama è piuttosto, come afferma Paul B. Preciado nel saggio in catalogo, la consapevolezza politica, assai precorritrice, dell’uso e della definizione sessuale dei corpi. Una frontalità che taglia la strada a qualsiasi tentazione morbosa.
Carol Rama, Speculazioni, 2002, Olio e collage di camere d’aria di bicicletta su tela impressa, calcograficamente ad acquatinta
Nelle camere d’aria e pneumatici Carol Rama trova poi un elemento molto congeniale. Duttile ed elastica come la pelle umana, può essere tirata, stesa, incollata, bucata e arricciata, o lasciata spenzolare come viscere, come membri maschili afflosciati. Il riuso di materiali, come gomme e sacchi postali, e la figurazione vera e propria si fondono nella serie che tiene impegnata l’artista negli anni ’90.
Carol Rama, Seduzioni, 1985. Fondazione Guido ed Ettore de Fornaris, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino.Carol Rama- Bricolage,1967
Estranea al femminismo intellettuale o militante degli anni’ ‘60 e ‘70, con cui pure avrebbe potuto condividere molto, Carol Rama non è incasellabile in nessuna etichetta culturale di facile consumo. La sua esplorazione del corpo e della materia non è né femminista, né riconducibile a una cultura egemonica maschile, per questo la lettura transgender di Paul B. Preciado risulta, ora, promettente nel superare le dicotomie e le categorie maschile-femminile.
Carol Rama, Bolle di vetro, 1939.Carol Rama, Bricolage, 1967Carol Rama, Bisbigli, 2003
La casa di Carol Rama, la mansarda al quinto piano di via Napione 15, affacciata sul Po e abitata per settant’anni dall’artista torinese, dalla metà degli anni Quaranta al 2015, anno della sua morte, dove ha vissuto e lavorato, è ora diventata un luogo fruibile dal pubblico.
immagini della casa-museo di Carol Rama
A prima vista sembrerebbe la casa di un accumulatore seriale: nell’ingresso decine di cassette della frutta, accatastate malamente una sull’altra, piene di carte, di giornali vecchi, nelle stanze migliaia, anzi, decine di migliaia di oggetti di ogni tipo che occupano tutti gli spazi: camere d’aria di biciclette, di camion, disegni, piccole sculture, statue di arte primitiva, scarpe, collane. C’è anche un’enorme statua della Madonna che troneggia sopra ad un mobile della cucina. Appese alle pareti, poi, centinaia di fotografie. In una si vede Carol con Liza Minelli e Andy Warhol, in un’altra Carol con Man Ray, in un’altra Carol con Pasolini, Carol col suo gallerista, Luciano Anselmino, colui che la introdusse nel mondo internazionale dell’arte, e con Felice Casorati.
Ertè fu un artista istrionico, amante della sperimentazione, scultore, stilista, illustratore, scenografo, viaggiatore, scrittore e persino cuoco. Ha vissuto una vita lunga, incredibilmente piena e movimentata tra successi e oblio altalenanti; ha lasciato la Russia non ancora ventenne ma è stata la bellezza russa, l’anima russa, che ha messo nelle sue opere.
Roman Petrovich Tyrtov nacque il 23 novembre 1892 a San Pietroburgo, in una famiglia di lunga tradizione. La famiglia Tyrtov era nota in Russia dalla metà del XVI secolo, il padre di Roman, l’ammiraglio della flotta Pyotr Ivanovich Tyrtov, prestò servizio come capo della Scuola di ingegneria navale e sperava che il suo unico figlio continuasse, come cinque generazioni dei suoi antenati, a far carriera come ufficiale di marina. Il suo futuro fu completamente diverso, iniziò a disegnare all’età di tre anni e creò il suo primo schizzo di moda quando aveva solo sei anni: era il disegno di una donna con un abito da sera. La madre di Roman portò lo schizzo alla sua sarta e cucito secondo l’idea del ragazzino, l’abito suscitò ammirazione. Ben presto divenne chiaro che il disegno e l’arte erano le uniche cose che stimolavano il ragazzo che studiò con entusiasmo le danze classiche sotto la guida della ballerina Maria Mariusovna Petipa, figlia del famoso coreografo del Teatro Mariinsky, sviluppando la grazia naturale e le possibilità plastiche del corpo. La sua lettura preferita erano gli album d’arte e l’Hermitage era un luogo costante per passeggiare di frequente per ore. Fu particolarmente attratto dalle antiche culture dell’Egitto, della Grecia e di Roma, nonché dalle luminose opere d’arte esotiche provenienti da India, Cina e dall’Oriente musulmano.
L’evento più sorprendente della sua infanzia fu la mostra di Parigi del 1900, che a soli sette anni visitò con la madre e la sorella. La mostra, ovviamente, era un posto fantastico per un ragazzino, ma fu la città stessa a fargli un’impressione molto più forte. Dovendo scegliere tra danza e pittura, Roman scelse quest’ultima. In seguito ha ricordato: “Sono giunto alla conclusione che potevo vivere senza ballare, ma non senza dipingere”. Nonostante il padre fosse categoricamente contrario alla carriera artistica del suo unico figlio, Roman iniziò seriamente a disegnare. Sua madre lo presentò al famoso artista Ilya Repin, che ammirò immediatamente lo stile dei disegni e gli diede alcuni consigli: fu la prima lezione professionale che ricevette Tyrtov. Successivamente, su consiglio di Ilya Efimovich, si sarebbe impegnato in un lavoro privato con l’artista Dmitry Losevsky, un allievo di Repin. In risposta all’offerta di suo padre di scegliere qualsiasi regalo per essersi diplomato, chiese un passaporto straniero. Non si può dire che il padre fosse soddisfatto di questa scelta ma mantenne la parola data: nel 1912, il diciannovenne Roman Tyrtov lasciò per sempre la Russia e si trasferì a Parigi. Arrivò nella capitale francese come corrispondente speciale per la famosa rivista di San Pietroburgo “Ladies’ World” – i suoi compiti includevano scrivere appunti sulle notizie di moda, disegnare modelli di case di moda e schizzi della folla parigina in strada.
Roman raccolse tutti i suoi disegni e li inviò al più famoso couturier dell’epoca, Paul Poiret, famoso per i suoi colori esotici, le silhouette originali e i modelli rivoluzionari senza corsetto. Fu il primo ad essere definito un “dittatore della moda” che considerava l’abito come un oggetto artistico. Nel suo lavoro c’è stata una forte influenza delle immagini sceniche create per le famose “Stagioni russe” di Lev Bakst e Alexander Benois, in particolare per le esibizioni “Egyptian Nights” e “Scheherazade”. Roman ammirava le “stagioni russe”, i colori vivaci e le immagini esotiche di Paul Poiret gli erano molto vicine. Tyrtov ha disegnato abiti, cappotti, cappelli e accessori presso la Paul Poiret House. Prese prese in questi anni lo pseudonimo Ertè, composto dalle sue iniziali lette in francese.
Lavorando per Poiret in collaborazione con il famoso disegnatore José Zamora, Ertè perfezionò la tecnica di disegno portandola alla perfezione. Per qualche tempo ha studiato all’Académie Julien ma la lasciò per concentrarsi interamente sul suo lavoro nel campo della moda. Il suo stile, ricco di raffinatezza, originalità e fantasia, rifletteva l’essenza stessa dell’allora nascente Art Decò. Ertè si sarebbe attenuto a questo stile per il resto della sua vita ed è proprio lui che gli porterà fama. I ricercatori sostengono che quasi tutte le tradizioni della pittura, sia antica che moderna, sono mescolate nelle opere di Ertè: la concisione grafica delle pitture vascolari greche, il colorito degli ornamenti egizi e la pretenziosità della raffinatezza della modernità. I suoi disegni sono pieni di gioia di vivere, ottenuta principalmente dalla contemplazione della bellezza, tradotta in sagome sottili, tessuti lussuosi, fluida plasticità delle linee, toni ricchi e incredibili combinazioni di colori. Lui stesso era simile ai suoi disegni: basso, molto magro e aggraziato, sempre elegantemente vestito.
Nel 1914 Ertè lasciò la casa di moda Paul Poiret e iniziò a lavorare per il palcoscenico. Il suo primo lavoro nel genere della scenografia sono stati i costumi per la Revue de Saint-Cyr parigina, poi ha creato i costumi per lo spettacolo “Minaret” al Teatro rinascimentale parigino, dove brillava la ballerina esotica più famosa della storia, Mata Hari. Da questa collaborazione la scenografia è diventata uno dei lavori preferiti di Ertè ma al tempo stesso ha firmato il suo primo contratto serio con una rivista di moda. Dicono che due delle pubblicazioni più famose dell’epoca, Vogue e Harper’s Bazaar gli abbiano fatto un’offerta in simultanea, di certo firmò un contratto a lungo termine con Harper’s Bazaar di cui disegnò la prima copertina per il numero di gennaio 1915 e da allora sono seguite 250 copertine uniche di Harper’s Bazaar, senza contare gli oltre duemila disegni e schizzi che apparvero sulle pagine della rivista. Il proprietario di Harper’s Bazaar, il leggendario magnate William Hurst arrivò a dire: “Cosa sarebbe la nostra rivista senza le copertine di Ertè?”
La fortunata collaborazione con questa pubblicazione ebbe eco oltre oceano. Durante la prima guerra mondiale, Ertè si trasferì dalla Parigi assediata a Monte Carlo e continuò ad essere attivamente pubblicato su testate di moda, principalmente americane; i suoi disegni furono pubblicati da Vogue, Cosmopolitan, Women’s Home Journal e altri. Ha disegnato schizzi per cappelli, borse, bottiglie di profumo, abiti, mobili e gioielli, ha creato disegni per tessuti e per murales in edifici residenziali. Il suo stile di vita era raffinato come i suoi disegni: Howard Greer, costumista di Hollywood, descrisse una visita a Ertè nel 1918: “La sua villa era in cima a una collina, sopra il Casinò di Monte Carlo e i giardini adiacenti. Un taxi mi aspettava alla stazione. Un lacchè, vestito con una redingote a righe bianche e verdi, con maniche di raso nero mi aprì la porta della villa. Fui condotto in una stanza enorme e luminosa dove gli unici mobili erano un grande scrittoio e una sedia posta proprio al centro su un pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri. Le pareti erano ricoperte da tende a strisce grigie e bianche molto alte. Entrò Erte. Era vestito con un ampio pigiama bordato di ermellino. Un enorme gatto persiano, inarcando la schiena, scivolò tra le gambe del nuovo arrivato… “Vuoi vedere i miei schizzi?” chiese Ertè e, avvicinandosi al muro, tirò una corda aprendo le tende grigio-bianche; mi sembrava che non c’era mai stato artista più prolifico e più raffinato di questo piccolo russo, che dipingeva giorni e notti donne esotiche dagli occhi allungati, tra pellicce, piume di uccelli del paradiso e perle. “
Ertè non solo ha creato costumi e scenografie per famosi aristocratici, organizzatori di feste private – ad esempio per il conte de Beaumont o la famosa marchesa Luisa Casati, ma ha anche messo in scena, come regista e coreografo, interi cortei e pantomime di “maschere” nei costumi delle sue opere, ottenendo successo. “L’immaginazione”, ha detto, “è la caratteristica principale nel mio lavoro. Per il palcoscenico negli anni ’20 disegnò diversi spettacoli di danza per la compagnia della grande ballerina Anna Pavlova (ad esempio Divertissement, Le quattro stagioni, Gavotte), spettacoli della Monte Carlo Ballet Company e produzioni alla Chicago Opera. Ha più volte fatto scenografie per il Folies Berger Music Hall e la sua star principale, la famosa ballerina Josephine Baker, diventata famosa per il suo vestito a casco di banane, per il cabaret Lido, Bal-Ta-baren e Ba-ta-clan, la London Opera House e la Grand Opera di Parigi. Tutte le esibizioni sono state un enorme successo.
Tra le due guerre mondiali, Ertè lavorò molto in America diventando famoso principalmente come creatore di lussuosi costumi per produzioni di varietà – non per niente i giornalisti lo chiamavano il “re delle sale da musica”: a New York ha lavorato con quasi tutte le famose riviste di Broadway, da George White’s ” Scandals” (disegni di tende e costumi per quelle produzioni ora al New York Museum of Modern Art) alle famose “Ziegfeld Girls” – la leggendaria compagnia dell’impresario di Broadway Florenz Ziegfeld. I suoi costumi hanno avuto un grande successo con le “star” americane – dopotutto, gli schizzi di Ertè combinavano con successo il lusso squisito dell’alta moda parigina , le linee fantastiche e i colori ricchi delle “stagioni russe” e la praticità degli abiti da lavoro . Le più famose attrici del cinema americano dell’epoca – Norma Shearer, Ellis Terry, Marion Davis, Claudette Colbert, Paulette Duval, May Murray, Lillian Gish, Pauline Stark e molte altre si vestirono con piacere secondo lo stile di Ertè.
Su invito di Louis B. Mayer, il proprietario dello studio MGM, nel 1925-26 Erte creò costumi per diversi film, inclusi film famosi come Ben-Hur di Fred Niblo, La bohemia di King Vidor, Time, Comedian e “Dance Madness” di Robert Z. Leonard, “Mystique” di Tod Browning e alcuni altri.
Carmel Myers in her Ben-Hur costume with Erté (aka Romain de Tirtoff), the designer of the costume. 1925.
Il suo senso creativo era unico, nel 1921 fu il primo a introdurre un abito con scollo asimmetrico. Nel 1929 per un’altra produzione, scelse velluto, seta e broccato per i costumi maschili, tessuti impensabili per la moda maschile dell’epoca, anche se abbastanza diffusi nel Settecento. Gli abiti hanno avuto un tale successo che da allora anche le case di moda più conservatrici hanno utilizzato questi materiali per confezionare modelli da uomo.
Un po’ più tardi, altrettanto casualmente, Erte inventò lo stile “unisex”, anche se nessuno lo chiamò così. I suoi modelli, che avevano le stesse linee per uomo e donna, erano molto apprezzati dai giovani e le sue tute fecero un salto di qualità seguendo le ultime tendenze della moda, lo “sportswear” di inizio secolo, abiti davvero comodi per muoversi. I suoi modelli si distinguevano per l’apparente semplicità del taglio che però non perdeva in eleganza, a dimostrazione della naturale plasticità del corpo, e la sobrietà dei tessuti era sottolineata da finiture preziose, ornamenti sofisticati e accessori di lusso. Lo scrittore francese Jean-Louis Bory osservò: “Ertè veste i volumi ma questi non sono più i volumi del corpo umano; abbellisce i movimenti…. crea nello spazio le figure di un balletto immobile.”
Tornato a Parigi negli anni Trenta nel pieno della sua fama, Ertè si stabilì a Boulogne, un costoso sobborgo parigino, dove per il suo appartamento creò magnifici interni in stile Art Déco, dove la raffinatezza delle linee e la moderazione delle combinazioni di colori erano enfatizzate solo da ciondoli esotici, mobili antichi e vasi con fiori rari. La gamma degli interni grigio-bianco-nero è stata solo occasionalmente diluita con macchie rosse. Un enorme acquario fungeva da parete che separava la hall dall’ufficio, e il bar a forma di bicchiere, realizzato su disegno dello stesso Ertè, era ricoperto di autografi di celebrità: il gatto Mikmak, il preferito di Ertè, fu il primo a lasciare le impronte delle sue zampe.
Durante la seconda guerra mondiale continuò a lavorare per spettacoli nei teatri francesi e americani. L’interesse per i suoi disegni era quasi scomparso: durante i difficili anni della guerra la raffinata bellezza della grafica di Ertè sembrava anacronismo e, dopo la guerra, le nuove tendenze hanno catturato l’interesse del pubblico. Tuttavia, Erte rimase fedele a se stesso: come ha affermato “la vera bellezza ha sempre intenditori ” e il suo lavoro infatti ebbe sempre un seguito.
Negli anni Sessanta si interessò alla scultura. In un primo momento creando creato opere astratte di metallo. La prima serie si chiamava “Painting Forms”, comprendeva le opere “Freedom”, “Inner Life”, “Shadows and Light” e altre – realizzate con vari metalli, con l’aggiunta di legno, smalto e vetro, dipinte con colori ad olio. Secondo lo stesso Erte, “non erano puramente astratte ma esprimevano emozioni, pensieri, stati d’animo”. Quindi passò alla fabbricazione di figurine di bronzo nell’antica tecnica della “cera persa”: la scultura veniva prima modellata con la cera, quindi il modello veniva rivestito con argilla, la cera veniva sciolta e al suo posto veniva colato del bronzo.
Le sue giovani donne magre, simili alle famose bellezze del passato, conoscenti e fidanzate di Ertè, sono l’incarnazione visibile della grazia e della sensualità. “Mi sento emozionato ogni volta che vedo e tocco il bronzo della mia collezione di sculture, perché posso vedere come i miei disegni, le mie idee, i miei pensieri, i miei sogni hanno preso vita, cosa mai accaduta prima”. Raggiungendo l’accuratezza di riprodurre la trama dei tessuti nel metallo, Ertè ha sperimentato molto con tecnologie e materiali. Con tecniche simili, ha anche creato una serie di gioielli, ad esempio la famosa collana “Fox”, realizzata a forma di teste di volpe in oro e pietre preziose.
fox Necklace
Nei primi anni Sessanta, solo pochi intenditori di storia dell’arte ricordavano Ertè anche se rimaneva ancora molto richiesto come scenografo: dal 1950 al 1958 lavorò per il famoso cabaret parigino La Nouvelle Eve, nel 1960 disegnò la scenografia di Fedra di Racine, e nel 1970-72 creò scene e costumi per lo spettacolo Roland Petit al Casinò di Parigi. Progettò palazzi e ville di campagna per ricchi e aristocratici; per la milionaria americana Isabella Estorich progettò una villa sull’isola di Barbados, per Elena Martini, la famosa hostess del cabaret Rasputin, Russo di origine, una casa in Normandia.
DICOR DE LA VENUS CASINO DE PARIS – Erte
E poi accadde una sorta di miracolo, cioè in età avanzata, Ertè riuscì a ottenere un rilancio di carriera. Alla fine degli anni ’60 -primi ’70 del secolo scorso, grazie a lui si risvegliò l’ interesse per l’arte degli anni 20-30 in tutto il mondo. Famose e memorabili le lettere dell’alfabeto e i numeri da lui rivisti in stile decò.
L’inizio di un nuovo decollo è stata una mostra alla Grosvenor Gallery di New York, organizzata per Ertè dall’amico mercante d’arte londinese Eric Estoric, un intenditore di spicco nell’arte del primo Novecento. Lui e sua moglie Sal incontrarono Ertè nel 1967 a Londra e la loro amicizia continuò fino agli ultimi giorni dell’artista. La mostra fu un successo fenomenale: parteciparono tutte le celebrità di New York e Hollywood e, dopo la chiusura, si è saputo che il Metropolitan Museum of Art aveva acquistato tutte le 170 opere. Il commento di Erte fu: “È stata un’opportunità senza precedenti per acquistare una mostra completa di un artista vivente”.
L’anno successivo, il Metropolitan espose in una mostra un centinaio delle opere acquistate – tuttavia, poiché le regole del museo vietavano di allestire una mostra personale di artisti viventi, la mostra si chiamava “Ertè e Contemporanei”: affiancarono le sue opere quelle di Lev Bakst, Natalia Goncharova e altri. La mostra ebbe un’enorme risonanza e il nome di Ertè riprese a fare il giro del mondo. Fece una grande impressione su Warhol: la semplicità e la fantasia di Ertè, la concisione e la brillante tavolozza della grafica hanno avuto un’influenza notevole sullo stile di Warhol .
Ispirato dal nuovo successo, Ertè decise di ripubblicare la sua prima serie grafica. Nel 1968 uscì Numbers, poi Six Gems, Four Seasons, Four Aces e la sua serie più famosa, The Alphabet, creata negli anni Venti. I disegni sono diventati così popolari che frammenti della serie sono diventati veri e propri emblemi del nuovo tempo: in tutto il mondo sono stati stampati su asciugamani, tazze, magliette e piatti.
Negli ultimi anni della sua vita, aveva un introito di circa cento milioni di dollari dalla vendita di sculture, disegni e litografie; oltre a collezionisti privati, le opere di Ertè furono acquistate dai più grandi musei del mondo, ad esempio , il Victoria and Albert Museum di Londra e il Museum of Modern Art di New York.
Pendant Beauty of the beast. Gold, fiamonds, black onyx, mother of pearl
L’interesse verso le sue opere in questi anni sembrava essere ancora più grande di prima: libri e album dei suoi lavori a volte occupavano interi scaffali nelle librerie. Nel 1975 pubblicò un libro di memorie, Things I Remember, che è ancora un grande successo. In esso, ha confessato: “Indosso lo stesso vestito con disgusto anche per due giorni di seguito e mangio lo stesso cibo. Ho sempre amato viaggiare perché abbellisce la vita. La monotonia genera noia e non mi sono mai annoiato in vita mia”. In effetti, sembrava che per lui la staticità non esistesse: in gioventù ha navigato instancabilmente tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti, in età adulta ha viaggiato per mezzo mondo: Sud America, Sud-est asiatico, Nord Africa e tutti gli angoli d’Europa.
I suoi abiti classici che indossava sempre impeccabilmente su misura,erano portati, per utilizzare le parole di un giornalista, “con la grazia unica con cui un gatto selvatico indossa la sua pelliccia”. Trascorse molto tempo a Maiorca, dove aveva una residenza estiva: ogni giorno, per tenersi in forma, nuotava per diversi chilometri nel mare, faceva sempre lunghe passeggiate e lavorò fino agli ultimi giorni della sua vita. Dipingeva a olio, guazzo e penna e realizzava schizzi per mobili, poster, lampade e gioielli, carte da gioco e disegni per abiti. Nel 1982 si fece un regalo per il suo anniversario: pubblicò un lussuoso album delle sue opere “Ertè a novant’anni”, cinque anni dopo fu pubblicato un secondo album – “Ertè a novantacinque”, e poi “Sculpture Ertè” . Nei libri c’era tutto sulla sua creatività, riflessioni sulla vita, sui paesi che ha visitato, sulle persone con cui ha dovuto lavorare e molto poco su se stesso. Non gli piaceva quando qualcuno interferiva nella sua vita personale e lui stesso preferiva non parlarne. Aveva novantasette anni quando disegnò la sua ultima opera teatrale, il musical di Broadway Stardust.
Opera Lady Fedora with a Butterfly brooch pin. Gold tone metal, enamel, crystals. Signed FM (Franklin Mint). Erte Art Deco jewelry
Nell’aprile del 1990, Ertè si trovava con amici sull’isola di Mauritius nell’Oceano Indiano. Si ammalò improvvisamente , in volo fu portato in un ospedale di Parigi, ma nonostante tutti gli sforzi dei medici, tre settimane dopo, il 21 aprile morì. Anche la bara era di suo design: mogano rifinito con ghirlande floreali Art Déco. Il suo corpo riposa nel cimitero di Boulogne, accanto ai suoi genitori.
In questo momento storico dove tutto appare distorto, scombussolato, dove il surreale appare meno strano della realtà malsana, mi sembra molto attuale l’opera pluriartistica di Jiri Kodar, un artista purtroppo misconosciuto quanto geniale. Ceco di nascita ma parigino di adozione Jiří Kolár è stato un artista poliedrico e multiforme. Di umili origini nasce nel 1914 a Protivìn, nella Boemia meridionale e svolge lavori disparati (falegname, panettiere, fabbro, cameriere, operaio delle ferrovie) ma la sua passione per le arti è sempre un crescendo.
Negli anni ’30 espone i suoi primi collage a Praga e scrive alcune delle poesie che saranno pubblicate all’inizio del decennio successivo. La sua ricerca procede parallela tra poesia visiva e arte; nel 1942 fonda, insieme allo storico dell’arte Jindřich Chalupecký, allo scultore Ladislav Zívr, al pittore František Hudeček, ai poeti Ivan Blatný, Jiřina Hauková, Josef Kainar e ad altri artisti, il Gruppo 42. Nel 1953 viene arrestato perché alcuni suoi scritti sono considerati “sovversivi” dal regime cecoslovacco. Condannato e poi amnistiato, subisce l’interdizione di ogni pubblicazione, un divieto che si protrarrà fino al 1964. Le sue ricerche nell’ambito delle arti visive lo portano a sperimentare diverse tecniche di collage e ad inventarne alcune molto interessanti. All’inizio degli anni ’50, crea le serie dei Confrontages, cioè l’accostamento quasi surrealista di due soggetti diversi e dei Rapportages, un confronto di soggetti differenti ma uniti da una base semantica, per esempio: due Interni del 1952, in cui vengono messi in relazione il Bue Macellato di Rembrandt e un calcolatore elettronico aperto coi meccanismi in bella vista. Di poco successivi sono i Rolages, ovvero collage realizzati “tagliando a strisce” l’immagine di un’opera famosa e quindi incollandola secondo una sequenza ritmica oppure intervallando le strisce a quelle estratte da un’altra immagine, per esempio il Bacino di San Giorgio Maggiore di Canaletto e La Nascita di Venere di Botticelli diventano il rolages “Venus a Vènis”.
Una tecnica differente è quella degli Intercalages, frammenti di opere innestate su ali di farfalle, sagome del mondo animale e anche in forme e silohuette tratte da altri dipinti. Sulla stessa linea di ricerca si pongono le Chiasmages , in cui lettere, parole, versi del Talmud o della Bibbia, numeri e persino partiture musicali diventano frammenti da incollare, sovrapporre, accartocciare. Quasi come negazione di queste tecniche, che aggiungono e combinano elementi differenti, nascono gli “anticollage“, ovvero gli Zmizìk (sparizioni), opere in cui “cancella” gli oggetti dalle riproduzioni di alcune opere. Per esempio nel Vaso Blu di Cezanne, fa scomparire proprio il vaso.
Viaggia molto e riceve numerosi premi: nel 1968 il Premio Mirò a Barcellona, il premio del Comitato centrale del Fronte Nazionale a Praga e quello della Biennale di Lignano; nel 1969 il premio della Biennale di San Paolo; nel 1971 il premio Herder a Vienna. Nel 1977 firma la Charta 77, una delle più importanti iniziative di dissenso in Cecoslovacchia. Nel 1980, mentre i suoi beni vengono confiscati in patria, si stabilisce a Parigi, dove fonda la la Revue K (Rivista K), dedicata agli artisti di origine ceca, come lui, in esilio in Francia. Torna in patria solo a seguito della Rivoluzione di velluto (1989) che mette fine al regime comunista cecoslovacco. La riconciliazione simbolica e pubblica della nuova Repubblica Ceca con il suo artista avviene però solo nel 1990 alla Biennale di Venezia, dove è esposta la prima opera della “Poesia a nodi” del 1963: un assemblaggio realizzato con spago, filo, passamaneria e cartone.
Nel 1999, dopo un ictus celebrale si trasferisce definitivamente a Praga dove muore nell’estate del 2002. Poco dopo la sua scomparsa il pittore Achille Perilli, che era un suo caro amico, gli dedica un omaggio sulla sua rivista Metek.
In tutte le sue opere si ha la sensazione che Kolář rispetti la condizione umana e attraverso la giovialità dei suoi armonici ritagli che ci stia anche suggerendo di non prenderci troppo sul serio.
Qui di seguito tre delle sue poesie che ben si legano alla scomposizione-ricomposizione che caratterizza la sua arte visiva.
DANZA
Danza come se tutta la tua vita dipendesse da questo Aspetta un momento per gli applausi fai l’inchino Sorridi aspetta ancora una volta ringraziali nuovamente aspetta ancora una volta fatti strada tra la folla con disappunto prendi un vassoio offri cibo bevande sigarette parla lingue straniere rispondi alle domande mostra a qualcuno la strada per il bagno saluta qualcuno calorosamente dai l’addio a qualcun altro entra in una discussione quindi prendi uno straccio o un foglio di giornale e mettiti di spalle alle finestre sporche
SONETTO
Prendi un romanzo che non conosci tagliane il dorso rimuovi i numeri di pagina e confondi le pagine il più possibile In quel disordine leggi il libro e scrivine il contenuto in quattordici righe
MAI PIÙ
Sali su un tram o un autobus e diventa intensamente consapevole della vibrazione sotto i tuoi piedi dei suoni dentro e fuori la vita tutt’intorno, la presenza degli altri ricorda quante volte sei andato da qualche parte da e per e con chi indovina cosa stanno pensando tutti, qual è il lavoro e come ha vissuto quello che legge, che sogno ha fatto. Da qualche parte nella memoria tieni spazio sufficiente per cosa vorresti ti accadesse cosa ti angoscia cosa dimentichi e intanto continua ad ascoltare la voce che nella tua testa ti chiede cosa faresti se sapessi che non tornerai mai più a casa.
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