Auctus Animalis, un progetto a 4 mani per una storia fantastica

Il musicista compositore francese Gaxie Sebastien e il fotografo francese Vincent Fournier specializzato in lavori di fantascienza, hanno unito le loro discipline per realizzare un progetto chiamato Auctus Animalis, una storia fantastica su un mondo ibrido che narra le vicende del capitano Levant ( la voce è prestata dall’attore Denis Lavant) che incontra creature fantastiche presenti su un’isola misteriosa in mezzo al Pacifico. Una sorta di favola iniziatica sulle metamorfosi ipotetiche delle specie conosciute. Fournier ha fotografato specie esistenti, avvalendosi anche del Museo di Storia Naturale di Parigi per rielaborare le immagini in digitale ottenendo effetti surreali.
Gli animali prendono vita attraverso la composizione di Gaxie che ha raccolto campionature delle voci di varie specie, tra cui anche il suono pulsato della balena, fondendole con la musica.

Il progetto è diventato una mostra, presentata alla Galleria Clementine de la Féronnière di Parigi. Un altoparlante posizionato al di sopra di ogni fotografia che diventa un viaggio di suoni; le voci animate dal violino o dal pianoforte evocano Pierino e il lupo di Sergej Prokoviev con riferimenti anche al Piccolo Principe. Attraverso immagini e suoni Auctus Animalis invia un messaggio in favore della conservazione della biodiversità attraverso gli impulsi sensoriali e stimola riflessioni e domande sulle possibili relazioni con la natura nel nostro mondo futuro.

Auctus Animalis: Récit de la découverte d’un monde hybride, è anche una pubblicazione per le Edizioni Filigranes, un CD + un volume di 64 pagine con 36 fotografie e illustrazioni a colori e in bianco e nero . La mostra sarà presente fino al 24 settembre alla Galleria Clémentine de la Féronnière a Parigi, spostandosi dal 10 al 13 novenbre 2022 al Salone Approche sempre a Parigi. Poi sarà a Nantes, Metz, Arles, Marseille nel 2023. Il progetto è stato il vincitore della 5 ° edizione del Premio Swiss Life a 4 mani.

alcune immagini sono visibili qui: https://www.lense.fr/news/vincent-fournier-sebastien-gaxie-laureats-du-5eme-prix-swiss-life-a-4-mains/

vetrina fotografica: Kudo Shoichi (1929-2014), grande talento poco ambizioso

Shoichi Kudo era nato nel 1929, figlio di commercianti di bestiame nella Prefettura di Aomori; non erano ricchi tanto che Shoichi frequentò la scuola senza scarpe, ma fu lo stesso un allievo esemplare. Nel 1945, quando lui era sedicenne, il Giappone stava perdendo la guerra e mentre l’imperatore annunciava la resa del Giappone, Shoichi e i suoi compagni di classe per sfamarsi si adattarono a raccogliere radici di alberi; la guerra continuò per un altro anno e Kudo che era figlio maggiore, fu arruolato.
Al rientro, nonostante i gradi ricevuti, non riuscì a frequentare l’università aiutando invece la sua famiglia. La figlia di Kudo, Kanako, ha dichiarato che per suo padre la mancanza di istruzione superiore alimentò in lui un complesso che lo segnò per tutta la vita. Riuscì a trovare lavoro alla Stampa giapponese, prima in sala stampa, poi fu trasferito al reparto fotografico. Fu allora che iniziò a scattare foto in giro per Aomori, mettendo da parte il denaro per acquistare la propria attrezzatura.
A 21 anni iniziò a pubblicare le sue foto per Fotocamera, una delle riviste giapponesi più antiche di fotografia, continuando la collaborazione fino al 1956. Nonostante la mancanza di formazione risultò spesso vincitore delle competizioni amatoriali accanto a luminari della fotografia Giapponese come Ihei Kimura, Ken Domon e Hiroshi Hamaya.
Questi fotografi compresa la sua abilità gli offrirono consigli su varie tecniche, il ritaglio e la composizione. Alcuni di loro lo invitarono a Tokyo per un meeting fotografico, ma una volta in loro compagnia si trovò intimidito e fuori luogo tra artisti più colti e cosmopoliti. Attraverso la testimonianza della figlia si sa che non riuscì a intervenire nel dibattito, e da quella esperienza maturò la convinzione di essere inadatto a proseguire la vita di artista contemporaneo in una grande città. Guardando le sue fotografie, tuttavia, non è difficile vedere il suo grande potenziale.

Kudo si sentiva profondamente radicato alla sua città, fotografò per lo più aspetti della vita di Aomori, pescatori con le loro mogli, le barche cariche a riva, le famiglie, i bambini dei vicini di casa durante i giochi sulle vie sterrate; uomini che indossano caratteristici cappelli conduttori di carri trainati da cavalli attraverso la folla nei nevosi giorni invernali; bellissima l’immagine di un bambino solitario circondato da un cielo pieno di uccelli; inquadrature colte che stupiscono con la loro semplicità permeata spesso da pura nostalgia.
C’era in Shoichi il desiderio di tentare di tradurre scene di vita domestica quotidiane in qualcosa di più idilliaco. Nella sua corposa produzione ha catturato un’atmosfera intima, uno spaccato di umanità della sua città nel dopoguerra.

In una delle sue immagini più suggestive, una figura solitaria passeggia coperte di neve in collina. Il sentiero alle sue spalle risulta una linea di inchiostro nero che lo segue per la cresta; l’immagine può essere interpretata come una metafora di se stesso.

A 26 anni quando si sposò scelse di rimanere al giornale ad Aomori. Continuò a scattare fotografie, ma non ebbe l’ambizione di proseguire la vita da artista a tempo pieno. Rifiutò una promozione a favore di un pensionamento anticipato, di cui poi si è pentito a causa della noia. Per curarla, si svegliava presto ogni giorno, e trascorreva la maggior parte del suo tempo libero a pescare. Per oltre sei decenni la maggior parte delle sue fotografie sono rimaste nascoste nella soffitta di casa, in attesa di essere scoperte dalla figlia.
Infatti, quando Shoichi morì nel 2014, la figlia Kanako donò delle stampe del padre a un museo locale, ma fu nel 2017 che scoprì un vero tesoro: mentre imballava degli oggetti svuotando vecchi mobili prima di abbandonare la casa di famiglia, scoprì un numero considerevole di negativi nascosti. C’erano migliaia di foto in bianco e nero che suo padre aveva scattato negli anni 1950 e non aveva mai mostrato a nessuno. Entusiasta nel trovare questa enorme eredità paterna ha deciso di condividere alcuni dei negativi salvati e scansionati e caricarli su Instagram.

Il lavoro di Shoichi Kudo in parte può essere visualizzato su http://www.instagram.com/shoichi_kudo_aomori

Esiste anche una pubblicazione su Shoichi Kudo intitolata “Aomori 1950-1962” edita da  Misuzu Shobo nel 2021, con 366 immagini che raccontano la sua storia

Tutte le foto pubblicate sono di ©Shoichi Kudo

vetrina fotografica: Henry Dallal e la passione per i cavalli e la natura

“Si viaggiare…” cantava Lucio Battisti ” dolcemente viaggiare,rallentando per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore, gentilmente senza strappi al motore…” . Ed è così che, di riflesso, si viaggia scorrendo le fotografie di Henry Dallal, londinese, che ha ricevuto in dono dal padre la prima spartana macchina fotografica all’età di nove anni, durante un’uscita sulle montagne dell’Iran, dove è nato nel 1955. La madre gli ha trasmesso la passione per i cavalli quando era un bambino e, mentre si sviluppava il suo interesse per l’alpinismo e i cavalli cresceva anche la sua passione per la fotografia.

Henry Dallal

Combinando il suo amore per i viaggi, l’avventura e i cavalli, Henry ha viaggiato molto per raggiungere aree remote per ritrarre lo splendore di paesaggi raramente visti e per catturare la bellezza dell’unione tra uomo e cavallo attraverso gli scatti. I suoi diversi soggetti spaziano dalle tribù nomadi delle steppe turkmene alla cavalleria domestica a Knightsbridge.

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Torres-Del-Paine, Cile
Petra-Room, Jordan
Lake Srinigar, Kashmir

Il suo lavoro è stato esposto in tutto il mondo ed è apparso in pubblicazioni a livello internazionale. Ha ricevuto commissioni per fotografare la Regina Elisabetta II e altre figure di spicco del mondo. Membro della Royal Geographical Society e dell’Alpine Club, è anche membro del consiglio dell’Hamdan International Photography Award (HIPA) con sede a Dubai.

vetrina fotografica: Toni Catany tra calotipo e polaroid

Toni Catany, (1942-2013) fotografo autodidatta nato a Maiorca ha vissuto e lavorato a Barcellona dal 1960. Sono del 1968 i suoi primi reportage su Israele ed Egitto pubblicati sulla rivista Destino e sulle Isole Baleari su La Vanguardia.

Toni Catany

Dal 1979 si fa conoscere a livello internazionale con un lavoro fotografico in cui utilizza la vecchia tecnica del calotipia (procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini riproducibili con la tecnica del negativo / positivo) . È interessato alle tecniche fotografiche dell’Ottocento ma lo è anche alla più moderna Polaroid. Usa spesso quest’ultima per realizzare nudi, paesaggi, ritratti o nature morte poi nei suoi ultimi anni è passato a una fotocamera digitale. Nei ritratti opta per l’uso del colore su carta da acquerello, e specialmente per le nature morte si evidenziano caratteristiche pittoriche.


È una figura di riferimento nel mondo della fotografia spagnola grazie alle sue immagini pittoriche in cui predominano temi classici come la natura morta, il nudo e il paesaggio urbano.

Catany ha realizzato più di cento mostre personali, pubblicato numerosi libri e, tra gli altri riconoscimenti, ha ricevuto il titolo di cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere, assegnato dal Ministero della Cultura francese nel 1991, e il Premio Nazionale della Fotografia assegnato dal Ministero dell’Istruzione e della Cultura nel 2001.
Quando è morto improvvisamente a Barcellona il 14 ottobre 2013, stava preparando quella che sarà una mostra postuma alla galleria Trama di Barcellona, ​​intitolata Altari Profani.

Un anno dopo la sua morte in ottemperanza ai suoi desideri è stata inaugurata la Fundació Toni Catany a Llucmajor. (https://fundaciotonicatany.cat/ )

vetrina fotografica: il corpo visto da Juana Gomez

Nata a Santiago del Cile nel 1980, Juana Gómez ha studiato arte all’Universidad Católica de Chile ma si è resa conto di quanto fosse difficile lavorare come artista. Difficoltà economiche e altri ostacoli la spingono a lavorare per più di 12 anni in un altro settore (progettazione grafica). Solo pochi anni fa la Gómez ha deciso di riprendere il suo sogno iniziale su consiglio di un’amica, l’artista visiva Cecilia Avendaño, e di suo marito, lo scrittore Benjamin Labatut. Da allora crea tele fotografiche in cui combina scienza e tradizione ancestrale.

L’artista dettaglia il suo corpo e lo analizza fino in fondo, ne ritrae le vene, le ossa, i nervi. Lo prende e lo guarda per quello che è davvero.
Lo rappresenta e ti dice di ricordarti che tu sei quella roba lì, che hai qualcosa in comune con le foglie, gli alberi, il traffico, internet e altre cose che hai costruito o che c’erano prima di te. Che sei linee, flussi, ramificazioni, segni, sei piccolo e fai parte del mondo naturale. Quello che fa Juana è stampare le sue fotografie su tessuto, quasi sempre di lino, poi inizia a ricamare gli organi: cuore, utero, cervello. Per fare questo studia libri di anatomia, come il classico Netter, e cuce e scuce fino a trovare la forma e il colore giusti.

“Il mio lavoro nasce dall’osservazione della natura e dei processi che determinano il modo in cui gli esseri viventi e il mondo inorganico sono strutturati e costruiti. Questa legge fondamentale è visibile nelle vene di una foglia, nel corso di un fiume e dei suoi affluenti, nel sistema nervoso centrale dell’essere umano, nelle correnti del mare e nelle rotte del traffico Internet. Decifrare questo linguaggio comune, che connette il micro con il macro, il mondo esterno e quello interno, permette di distinguere uno schema che influenza l’inerte, il biologico, il sociale e il culturale. Ci colpisce continuamente, a malapena consapevolmente, e governa aspetti quotidiani come i nostri spostamenti attraverso la città e altri personali come il simbolismo dei nostri sogni. La sua essenza sta nel modo in cui le cose scorrono lungo il sentiero di minor resistenza.”

il suo sito: https://http://www.juanagomez.com/

Vetrina fotografica: Marco Illuminati e la fotografia creativa

Marco Illuminati, conosciuto attraverso scatti a capolavori d’arte museale che ho molto apprezzato si è rivelato, grazie a una ricerca in rete, anche un genio di creatività. Unisce scultura, composizione e fotografia, impiegando materiali di uso comune, raccolti ed elaborati artigianalmente per dare loro una diversa valenza: oggetti come utensili di uso quotidiano , dal peluche ad elementi organici, che diventano rappresentazione impattante di metafore intelligenti e originali. Trovo i suoi lavori enormemente interessanti e gradevoli, una fotografia pulita e concentrata a evidenziare il valore del significato simbolico che rappresenta.
Per ulteriori info: https://www.marcoilluminati.com/

November 2015 – BoBo Digital color photo. Paris, France. Photo: MarcoIlluminati
Photo: MarcoIlluminati
November 2015 – BoBo Digital color photo. Paris, France. Photo: MarcoIlluminati

l’alba

L’alba è sogno da inquadrare,
spesso si smarrisce il meglio
svogliati da luna dicembrina
in postura fetale, pigri
a rendere onori al giorno.
Giocando d’anticipo
sul campo delle meraviglie
si assiste ai primi barbagli
d’un giorno sacro a Giove.
Indeciso il sole, sognante
estati e rosee sponde
di fenicotteri in raduno,
mostra il suo desiderio
nel pallido rosa d’un bacio
tingendo di sè le nubi,
scarmigliati sorrisi plananti
su longevità di dolci carrubi.

Daniela Cerrato

FOTOGRAFIA DI FRANCESCO MERCADANTE

vetrina fotografica: Dana Gluckstein, l’obiettivo sui diritti umani

Dana Gluckstein ha fatto della fotografia un mezzo per sensibilizzare le coscienze nella lotta per i diritti umani in tutto il mondo. Di origini ebraiche la Gluckstein si riuniva intorno al tavolo durante la Pasqua ebraica, sua bisnonna Bubbie Goldie le insegnava le preghiere della sera mantenendo viva una tradizione che molti imperi cercavano di distruggere.


Col tempo si è consolidato in lei un profondo legame non solo con la sua cultura, ma anche con quella mondiale; insieme a una Hasselblad del 1981 per 30 anni ha viaggiato per terre lontane a ritrarre persone nelle comunità indigene in lotta per la sopravvivenza in una guerra condotta contro di loro da governi, corporazioni e organizzazioni religiose.
“I popoli indigeni di tutto il mondo hanno qualcosa di profondo e importante da insegnare a quelli di noi che vivono nel cosiddetto mondo moderno”, scrive il premio Nobel Desmond Tutu nella prefazione al nuovo libro di Dana Gluckstein, DIGNITY, una potente raccolta di ritratti in bianco e nero realizzati negli ultimi tre decenni nelle Americhe, in Africa, in Asia e nelle isole del Pacifico. “[I popoli indigeni, continua Tutu, ci insegnano che la prima legge del nostro essere è che siamo inseriti in una delicata rete di interdipendenza con i nostri simili e con il resto della creazione”. “In Africa il riconoscimento dell’interdipendenza si chiama ubuntu . È l’essenza dell’essere umano. Sono umano perché appartengo al tutto, alla comunità, alla tribù, alla nazione, alla terra”.
Ubuntu in definitiva riguarda la sopravvivenza del gruppo e della specie mentre si sta fronteggiando un futuro incerto. La coesione degli esseri umani arriva nei momenti di maggiori difficoltà, come il devastante cambiamento climatico in atto, disprezzato dai governi del Primo Mondo e dagli interessi finanziari. I popoli indigeni, non solo sono sopravvissuti e hanno prosperato per decine di migliaia di anni, ma ora continuano ad agire come i veri custodi della terra. Ma molti di loro sono stati presi di mira e uccisi per aver difeso la loro terra, la loro cultura e il loro patrimonio.

Amnesty International ha originariamente collaborato con Dana Gluckstein a DIGNITY per dare un volto alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni e ottenere il sostegno dell’amministrazione Obama nel 2010. La battaglia per il riconoscimento è iniziata nell’agosto 1977 quando 146 delegati delle nazioni e delle comunità indigene si sono recate alle Nazioni Unite a Ginevra, cercando di creare una nuova politica globale, il primo passo verso la giustizia dopo mezzo millennio di genocidi e oppressioni.

Il libro e la mostra itinerante della Gluckstein sono divenuti voce per stimolare l’azione a sostegno delle donne native americane e dell’Alaska; i suoi ritratti celebrano i leader di molti Popoli dai Navajo agli Herero. Troppo spesso ascoltiamo storie di distruzione, degradazione e morte, ma mai storie di amore, gioia e successo. Con DIGNITY è offerto uno sguardo alla bellezza della vita quotidiana indigena nel mondo di oggi.

Per chi fosse interessato il libro fotografico Dignity è acquistabile in rete.

vetrina fotografica: Raffaele Montepaone

” Come fotografo mi ritrovo a soddisfare richieste di diverso genere, dai matrimoni al reportage sociale e giornalistico, in qualunque lavoro metto la stessa passione senza mai discostarmi dal mio stile che è quello di una fotografia quanto più realistica possibile.
Sono personalmente attratto da uno stile più reportagistico ,attraverso i miei scatti tento di cogliere la vera essenza di chi ho davanti, provo a fotografare l’anima dei miei soggetti ,a raccontarne le emozioni, utilizzando sempre un approccio discreto e semplice e cercando il contatto diretto con i protagonisti delle mie opere. Tutto questo mi aiuta a creare il giusto feeling e ad offrire delle immagini molto vicine alla realtà. ” (Raffaele Montepaone)

Cosi si racconta Raffaele Montepaone, fotografo nato a Vibo Valentia nel 1980, che a 12 anni inizia a frequentare lo studio fotografico di famiglia dove accresce la sua passione per il reportage e la fotografia strettamente legata alle radici e all’anima dell’uomo e anche della natura.
Nel primo progetto “Vita” racconta attraverso occhi, volti, mani segnate dal tempo, la vecchia Calabria e la sua dignitosa bellezza.
Nel 2007 pubblica il volume-documento “3 Luglio 2006” suggestivo racconto fotografico sull’alluvione di Vibo Valentia,il ricavato lo devolve in favore della popolazione colpita.
Nel 2014 vince il premio Affordable Art fair ed espone a Milano tra i giovani emergenti, dove conquista la critica. Vincitore premio speciale Talent Prize del 2015 espone la sua opera “Memoria”al museo Pietro Canonica di Roma; nello stesso anno a Parigi al Caroussel du Louvre.

Il 2016 è un anno di successi: l’Archivio fotografico italiano organizza una sua personale a Legnano per il Festival Fotografico Europeo in cui riscuote un forte consenso della critica internazionale; Christie’s batte una sua opera insieme a quelle dei grandi autori, opera che viene inserita nel volume Personaggi e Paesaggi d’Italia; di luglio il suo primo libro ad Arles “Il bel paese”, a ottobre espone in una collettiva alla Maison de L’International ed una personale alla galleria EX- NIHILO.

A luglio del 2017 edita il libro “Vita” con la prefazione di Ferdinando Scianna. Seguono varie esposizioni dal Museo di arte contemporanea Marca di Catanzaro alla Biblioteca Nazionale di Torino.al museo Les Bernardes di Girona in Spagna, presso La Fondazione Ferrero ad Alba.
Presente in vari articoli di riviste fotografiche internazionali ricerca continuamente espressioni ed atmosfere senza tempo, esaltate dalla sua particolare visione monocromatica.

Personalmente mi ha colpita il suo evidenziare dettagli che esprimono fortemente il tempo e le tradizioni, la voce intima del bianco e nero che ancora una volta mi trova a prediligerne le qualità nel raccontare non solo attraverso gli occhi intense tracce di vita.

altre immagni e info sul suo sito: https://raffaelemontepaone.it/

vetrina fotografica: la fotografia dinamica di Martin Munkácsi

Il fotografo Martin Munkácsi (1896-1963), ha fatto storia e ha cambiato il mondo della fotografia quando ha scattato la prima fotografia di moda spontanea per Harper’s Bazaar. Durante gli anni ’20 e ’30, l’allora poco noto fotografo ungherese ha immortalato alcune delle persone e degli eventi più accattivanti del suo tempo, e il suo lavoro ha influenzato alcuni dei più grandi fotografi del mondo, da Richard Avedon a Henri Cartier-Bresson a Edward Steichen.

Martin Munkácsi nato nel 1896 in Ungheria ha iniziato la sua carriera giornalistica a Budapest nel 1921. Contribuiva con articoli sportivi al quotidiano locale Az Est. Ciò che ha reso Munkácsi diverso dai suoi coetanei era la capacità di catturare l’azione in un modo che nessuno stava facendo in quel momento. Nel 1928 si trasferì a Berlino e iniziò a lavorare per diverse riviste che trattavano cronache in Germania e nelle principali città del mondo. Munkácsi era un fotografo ebreo, che lavorava per pubblicazioni gestite da ebrei il che all’epoca significava che il suo sostentamento e la sua vita erano in grave pericolo. La fotografia di Munkácsi del 1933 di Lucile Brokaw che corre lungo la spiaggia, fu rivoluzionaria e considerata da molti come l’inizio della vera fotografia di moda. Portando l’azione sul set di un servizio fotografico di moda, è stato in grado di catturare la vitalità e l’entusiasmo della donna americana in un modo che nessun altro aveva fatto prima. Dopo aver scattato quella fotografia rivoluzionaria, l’editore di Harper’s Bazaar Carmel Snow offrì lavoro fisso a Munkácsi, permettendogli di trasferirsi a New York e sfuggire al crescente pericolo in Germania. Una volta a New York, Munkásci ha continuato a contribuire con molte famose fotografie al mondo della moda, incluso il primo nudo. Ha anche lavorato al Life and Ladies’ Home Journal, che gli ha permesso di portare il suo stile nelle fotografie delle star di Hollywood. Piuttosto che mettere in scena le pose tradizionali invitava le star a ballare, saltare e torcersi, infondendo alle fotografie personalità ed energia.

Di Martin Munkácsi Richard Avedon ha detto: “Ha portato il gusto per la felicità, l’onestà e l’amore per le donne a quella che era, prima di lui, un’arte senza gioia, senza amore e bugiarda. Oggi il mondo della cosiddetta moda è popolato dai bambini di Munkácsi, i suoi eredi…. L’arte di Munkácsi stava in ciò che lui voleva che fosse la vita, e voleva che fosse splendida.”


Sula foto di Munkácsi “Tre ragazzi sul lago Tanganyka” Henri Cartier Bresson disse:“ Questa fotografia è stata la scintilla che ha acceso il mio entusiasmo. Improvvisamente mi sono reso conto che, catturando l’attimo, la fotografia era in grado di raggiungere l’eternità. È l’unica fotografia che mi ha influenzato. Questa immagine ha una tale intensità, una tale gioia di vivere, un tale senso di meraviglia che continua ad affascinarmi ancora oggi”.