La figura di Venere

Sempre voluttuosa e seducente ,sensuale e bellissima la Venere – Afrodite delle rappresentazioni scultoree e pittoriche che sono innumerevoli. Alcune le conosciamo da sempre perchè riportate già sui libri scolastici ,altre le abbiamo incontrate nel percorso culturale. Poeti e scrittori si sono cimentati da sempre in odi a Lei rivolte, dunque sarebbe enciclopedico scrivere un articolo su di lei, quindi mi limito a riportare qui tutto ciò che più mi ha colpita su questa dea, musa di svariata arte.

“O Venere dal soglio
Variopinto, o germoglio
Di Giove, eterno; o d’amorosi furti
Artefice: a te supplico: di rea
Cura e d’angoscia non gravarmi, o Dea.”
(da A Venere, traduzione di Giuseppe Bustelli, 1863)
– Saffo

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Statua di Afrodite (Venere di Tauride), Hermitage, San Pietroburgo

“Quando la femmina e il maschio mescolano insieme i semi di Venere,la forza che si forma nelle vene da sangue diversoplasma corpi ben costituiti se conserva l’equilibrio.Infatti se mischiatosi il seme le forze contrastanoe non formano un’unità nel corpo mescolato, crudelitormenteranno il sesso che nasce col duplice seme. “ ( Parmenide, 515 a.C./510 a.C., 544 a.C./541 a.C. – 450 a.C.)

In basso:La Venere di Willendorf

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„Quanto alla divina follia ne abbiamo distinto quattro forme, a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l’influsso di Afrodite e di Amore.“ – Platone (428 o 427 a. C. – 348 o 347)

In basso: a sinistra Pittore di Pitosseno, Particolare della coppa con Afrodite sul cigno (British Museum of London) – a destra Ares e Afrodite, Pompei, affresco della Casa di Venere e Marte


“Penetrando nel museo, la scorsi subito in fondo ad una sala, e bella proprio come l’avevo immaginata. Non ha la testa, le manca un braccio; mai tuttavia la forma umana mi è parsa più meravigliosa e più seducente. Non è la donna vista dal poeta, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa, come la Venere di Milo, è la donna così com’è, così come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere. È robusta, col petto colmo, l’anca possente e la gamba un po’ forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede in piedi. Il braccio caduto nascondeva i seni; con la mano rimasta, solleva un drappeggio col quale copre, con gesto adorabile, i fascini più misteriosi. Tutto il corpo è fatto, concepito, inclinato per questo movimento, tutte le linee vi si concentrano, tutto il pensiero vi confluisce. Questo gesto semplice e naturale, pieno di pudore e di impudicizia, che nasconde e mostra, che vela e rivela, che attrae e che fugge, sembra definire tutto l’atteggiamento della donna sulla terra. Ed il marmo è vivo. Lo si vorrebbe palpeggiare, con la certezza che cederà sotto la mano, come la carne. Le reni soprattutto sono indicibilmente animate e belle. Si segue, in tutto il suo fascino, la linea morbida e grassa della schiena femminile che va dalla nuca ai talloni, e che, nel contorno delle spalle, nelle rotondità decrescenti delle cosce e nella leggera curva del polpaccio assottigliato fino alle caviglie, rivela tutte le modulazioni della grazia umana. Un’opera d’arte appare superiore soltanto se è, nello stesso tempo, il simbolo e l’esatta espressione di una realtà. La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne. Dinnanzi al volto della Gioconda, ci si sente ossessionati da non so quale tentazione di amore snervante e mistico. Esistono anche donne viventi i cui occhi ci infondono quel sogno di tenerezza irrealizzabile e misteriosa. Si cerca in esse qualcos’altro dietro le apparenze, perché sembrano contenere ed esprimere un po’ di quell’ideale inafferrabile. Noi lo inseguiamo senza mai raggiungerlo, dietro tutte le sorprese della bellezza che pare contenere un pensiero, nell’infinito dello sguardo il quale è semplicemente una sfumatura dell’iride, nel fascino del sorriso nato da una piega delle labbra e da un lampo di smalto, nella grazia del movimento fortuito e dell’armonia delle forme. Così i poeti, impotenti staccatori di stelle, sono sempre stati tormentati da una sete di amore mistico. L’esaltazione naturale di un animo poetico, esasperato dall’eccitazione artistica, spinge quegli esseri scelti a concepire una specie di amore nebuloso, perdutamente tenero, estatico, mai sazio, sensuale senza essere carnale, talmente delicato che un nonnulla lo fa svanire, irrealizzabile sovrumano. E questi poeti sono, forse, i soli uomini che non abbiano mai amato una donna, una vera donna in carne ossa, con le sue qualità di donna, i suoi difetti di donna, la sua mente di donna, ristretta ed affascinante, i suoi nervi di donna e la sua sconcertante femminilità. Qualsiasi creatura davanti a cui si esalta il loro sogno diventa il simbolo di un essere misterioso, ma fantastico: l’essere celebrato da quei cantori di illusioni. E la creatura vivente da loro adorata è qualcosa come la statua dipinta, immagine di un dio di fronte al quale il popolo cade in ginocchio. Ma dov’è questo dio? Qual è questo dio? In quale parte del cielo abita la sconosciuta che quei pazzi, dal primo sognatore fino all’ultimo, hanno tutti idolatrata? Non appena essi toccano una mano che risponde alla stretta, la loro anima vola via nell’invisibile sogno, lontano dalla realtà della carne. La donna che stringono, essi la trasformano, la completano, la sfigurano con la loro arte poetica. Non sono le sue labbra che baciano, bensì le labbra sognate. Non è in fondo agli occhi di lei, azzurri o neri, che si perde così il loro sguardo esaltato, è in qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. L’occhio della loro dea non è altro che un vetro attraverso cui essi cercano di vedere il paradiso dell’amore ideale. Se tuttavia alcune donne seducenti possono dare alle nostre anime una così rara illusione, altri non fanno che eccitare nelle nostre vene l’amore impetuoso che perpetua la razza. La Venere di Siracusa è la perfetta espressione della bellezza possente, sana e semplice. Questo busto stupendo, di marmo di Paros, è – dicono – La Venere Callipigia descritta da Ateneo e Lampridio, data da Eliogabalo ai siracusani. Non ha testa! E che importa? Il simbolo non è diventato più completo. È un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza. Schopenhauer scrisse che la natura, volendo perpetuare la specie, ha fatto della riproduzione una trappola. La forma di marmo, vista a Siracusa, è proprio l’umana trappola intuita dall’artista antico, la donna che nasconde rivela l’incredibile mistero della vita. È una trappola? Che importa! Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la tangibile realtà della carne stupenda, della carne soffice bianca, tonda e soda e deliziosa da stringere. È divina, non perché esprima un pensiero, bensì semplicemente perché è bella.“  – Guy de Maupassant ( 1850 – 1893)

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qui sopra: Carlo Finelli – Venere che esce da una conchiglia (C) Aurelio Amendola

da  “José Saramago, Le poesie”, Einaudi, Torino, 2002
(Traduzione di Fernanda Toriello)

All’inizio, è un nulla. Un soffio appena,
un brivido di squame, la carezza dell’ombra
come nube marina che si sfrangia
nella medusa dalle braccia a raggi.
Non si dirà che il mare s’è turbato
e che l’onda prende forma da quel fremito.
Nel dondolio del mare danzano pesci
e le braccia delle alghe, serpentine,
le curva la corrente, come il vento
le messi della terra, il crine dei cavalli.
Tra due infiniti blu s’avanza l’onda,
tutta di sol coperta, risplendente,
liquido corpo, instabile, d’acqua cieca.
Accorre il vento da lontano e reca
il polline dei fiori e altri odori
della terra contigua, oscura e verde.
Tuonando, l’onda rotola, e feconda
si lancia verso il vento che l’attende
nel letto scuro di rocce che si increspano
di unghie appuntite e vite brulicanti.
Ancora in alto le acque si sospendono
nell’istante supremo di tanta gestazione.
E quando, in un’estasi di vita che comincia,
l’onda si frange e sfrangia sulle rocce,
le avvolge, le cinge, le stringe e poi vi scorre
– dalla spuma bianca, dal sole, dal vento che ha spirato,
dai pesci, dai fiori e da quel polline,
dalle tremule alghe, dal grano, dalle braccia della medusa,
dai crini dei cavalli, dal mare, dalla vita tutta,
Afrodite è nata, nasce il tuo corpo.

__________ Qui sotto: la Venere Esquilina e la Venere Landolina

Qui di seguito l’ode “Ad Afrodite”, di Saffo (630 a.C. circa – Leucade, 570 a.C.)
traduzione di S. Quasimodo)

Afrodite, trono adorno, immortale,
figlia di Zeus, che le reti intessi, ti prego:
l’animo non piegarmi, o signora,
con tormenti e affanni.
Vieni qui: come altre volte,
udendo la mia voce di lontano,
mi esaudisti; e lasciata la casa d’oro
del padre venisti,
aggiogato il carro. Belli e veloci
passeri ti conducevano, intorno alla terra nera,
con battito fitto di ali, dal cielo
attraverso l’aere.
E presto giunsero. Tu, beata,
sorridevi nel tuo volto immortale
e mi chiedevi del mio nuovo soffrire: perché
di nuovo ti invocavo:
cosa mai desideravo che avvenisse
al mio animo folle. “Chi di nuovo devo persuadere
a rispondere al tuo amore? Chi è ingiusto
verso te, Saffo?
Se ora fugge, presto ti inseguirà:
se non accetta doni, te ne offrirà:
se non ti ama, subito ti amerà
pur se non vuole.”
Vieni da me anche ora: liberami dagli affanni
angosciosi: colma tutti i desideri
dell’animo mio; e proprio tu
sii la mia alleata.
Un esercito di cavalieri, dicono alcuni,
altri di fanti, altri di navi,
sia sulla terra nera la cosa più bella:
io dico, ciò che si ama.
È facile far comprendere questo ad ognuno.
Colei che in bellezza fu superiore
a tutti i mortali, Elena, abbandonò
il marito
pur valoroso, e andò per mare a Troia;
e non si ricordò della figlia né dei cari
genitori; ma Cipride la travolse
innamorata……
……ora mi ha svegliato il ricordo di Anattoria
che non è qui;
ed io vorrei vedere il suo amabile portamento,
lo splendore raggiante del suo viso
più che i carri dei Lidi e i fanti
che combattono in armi.
Simile a un dio mi sembra quell’uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza.

__ Girolamo da Treviso, (1498 -1544)“Venere dormiente”

__ Venere Callipigia di Edi Brancolini (1946-vivente)

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Inno a Venere (Lucrezio, De rerum natura )

“O genitrice degli Eneadi, godimento degli uomini e degli dei,

divina Venere, che sotto i segni mutevoli del cielo

il mare che sostiene le navi e le terre che producono i raccolti

vivifichi, perché grazie a te ogni genere di viventi

viene concepito e giunge a visitare, una volta nato, i lumi del sole:

te, dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo

e il tuo arrivo, sotto di te la terra operosa soavi

fiori distende, a te sorridono le distese del mare

e, rasserenato, il cielo risplende di luce diffusa.

Infatti non appena si è manifestato l’aspetto primaverile del giorno

e, dischiusasi, prende vigore l’aura generatrice di favonio,

prima di tutto gli uccelli dell’aria te, o dea, e il tuo

ingresso segnalano, risvegliati nei cuori dalla tua forza.

Quindi fiere le greggi balzano attraverso i pascoli rigogliosi

e attraversano a nuoto i fiumi vorticosi: a tal punto, colto dalla bellezza,

ciascuno ti segue con desiderio dove ti accingi a condurlo.

Infine per mari e monti e fiumi impetuosi

e frondose case di uccelli e campagne verdeggianti

in tutti infondendo nei petti un dolce amore

fai sì che con desiderio, genere per genere, propaghino le specie.

E poiché tu sola governi la natura delle cose

né senza te alle luminose sponde della luce alcunché

sorge né si produce alcunché di lieto né di amabile,

desidero che tu sia collaboratrice per scrivere i versi

che io sulla natura delle cose tento di comporre

per il nostro Memmiade, che tu, o dea, in ogni occasione

hai voluto si distinguesse dotato di tutte le qualità.

Per cui a maggior ragione dà, o divina, eterna bellezza alle parole.

Fai in modo che frattanto i feroci effetti della milizia

per i mari e le terre tutte riposino assopiti.

Infatti tu sola puoi con la tranquilla pace aiutare

i mortali, poiché i feroci effetti della guerra Marte

signore delle armi gestisce, lui che spesso nel tuo grembo si

getta sconfitto dall’eterna ferita di amore,

e così guardando in alto con il tenero collo ripiegato

soddisfa gli sguardi avidi di amore stando a bocca aperta verso di te, dea,

e dal tuo volto non si stacca il respiro di lui che giace.

Tu, o dea, col tuo corpo santo sopra di lui che giace

stando abbracciata, soavi parole dalla bocca

effondi chiedendo per i Romani, o divina, una pace serena.

Infatti né noi in questo momento turbolento della patria

possiamo vivere con animo sereno né la gloriosa discendenza di Memmio

in tali situazioni può mancare al bene comune.”

La Venere callipigia, Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

DIA 041

Gli autori classici hanno scritto versi di una bellezza sconvolgente; spesso accantonati, dopo il periodo scolastico vengono riscoperti con occhi nuovi dopo diversi anni.

E regalano intense emozioni.