Serafino Macchiati (1861-1916)

Alcuni artisti italiani hanno avuto maggior successo e riconoscimenti all’estero che in Patria, come nel caso di Serafino Macchiati nato a Camerino nel 1861 e morto a Parigi nel 1916. Si trasferisce con la famiglia a Roma a fine ottocento, molto versato nel disegno, esordisce giovanissimo, a soli ventidue anni, all’Esposizione Internazionale di Roma del 1883. Si integra perfettamente nell’ambiente culturale romano, entrando in contatto con Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Duilio Cambellotti e Sibilla Aleramo. In loro compagnia Macchiati gira la campagna romana per capire la condizione dei contadini, interessato a problematiche sociali e politiche di stampo socialista. Attento al Verismo, non si ritrova nel Simbolismo decadente che domina la scena romana dell’epoca, anche se guarda con interesse ad alcune opere di Francesco Michetti.

Il linguaggio pittorico di Macchiati già in origine è caratterizzato da pennellate vaporose e vibranti che donano ai dipinti una sospensione e un dinamismo di luce che richiamno influenze di Francesco Paolo Michetti con cui viene a contatto proprio durante il suo esordio presso l’Esposizione Nazionale di Roma del 1883, dove il maestro abruzzese presenta il celebre Voto.

Paul Verlaine, Bibi la Purée and Stéphane Mallarmé at the Café Procope, 1890 by Serafino Macchiati (1861-1916)

Macchiati, Frescura sotto il pergolato

Si dedica alla pittura fino alla metà degli anni Novanta, quando l’abbandona per passare esclusivamente al disegno e all’illustrazione. Esegue le prime vignette per la casa editrice Sonzogno e per Il canzoniere dei fanciulli di Enrico Fiorentino (1888) pubblicato da Treves, ma è col lavoro per la Tribuna Illustrata che giunge al successo meritato con disegni per brani di Pirandello e Capuana.
Sempre caratterizzato da una linea elegante e raffinata, partecipa con illustrazioni e disegni acquarellati a diverse esposizioni italiane, tra cui la Biennale di Venezia e l’Esposizione di Milano per il Traforo del Sempione del 1906.

Serafino Macchiati, Dopo il Galà,1900

Assunto dall’editore francese Lemerre, nel 1898 si trasferisce a Parigi, lavorando come illustratore di romanzi. Poi lavora anche per la Hachette e per l’editrice Fayard, ottenendo grandissimi risultati. Nel 1901, realizza le illustrazioni di alcuni canti della Commedia per i fratelli Alinari ma la critica italiana stranamente non è benevola

Serafino Macchiati , L’apparizione di uno spettro

Nei primi anni del Novecento riprende a dipingere, raggiungendo uno stile postimpressionista che colpisce positivamente Vittore Grubicy de Dragon (1851-1920) che lo fa esporre nella sua sede parigina. È autore di tele importanti caratterizzate da pennellate che racchiudono un’unione tra Divisionismo e Impressionismo, caratteristica che conserva fino alla sua morte. Dopo aver partecipato alla Mostra Internazionale di Roma del 1911, rientra a Parigi, dove continua a lavorare fino al 1916, anno della sua morte a soli cinquantacinque anni.

Serafino Macchiati,Le Visonnaire

Dopo la sua morte, nel 1922 la Biennale veneziana gli dedica una sala personale con trentadue opere, tra illustrazioni e dipinti; nel ’23 viene ricordato anche alla Galleria Pesaro, con una grande antologica che riassume tutta la sua carriera.

Macchiati, vignetta per Le Disciple

Serafino Macchiati, Morfinomani

Macchiati, Donna sdraiata sull’erba

Macchiati, La speranza perduta

Franco Mulas (1938-2023) il pittore del ’68 e delle disillusioni

Il 3 marzo 2023 è morto a Roma all’età di 84 anni il pittore Franco Mulas che studiò all’Accademia di Francia e alla scuola d’Arte ornamentale di Roma. La prima mostra personale si è tenuta nel ’67 a Bari, alla Galleria “Il Sagittario” con opere che rappresentano la disillusione degli italiani colta attraverso i riti alienanti delle autostrade domenicali. Poi giunge il ’68 e il clima si riflette sulla sua opera nel ciclo “Occidente”, dedicato alla contestazione giovanile e al Maggio francese. Le opere di questo ciclo con testi di Mario De Micheli, Giorgio Cortenova, Dario Micacchi, Franco Solmi, sono esposte in importanti Gallerie, tra le quali ”La Nuova Pesa” di Roma e la “Bergamini” di Milano.

Franco Mulas, Nous sommes tous indesirables, 1969

Ha partecipato a esposizioni pubbliche nazionali ed internazionali, tra le quali: 10° e 11° Quadriennale di Roma, 39° Biennale di Venezia sez. architettura con il Gruppo Grau, 18° Triennale di Milano, e “Arte in Italia 60-77” Galleria d’Arte Moderna Torino. Nel 1972 a Bologna, insieme a Baj, Ceroli, Fabio Mauri, Oldemburg, Pistoletto, Vettor Pisani, Schifano, Vedova e Vespignani partecipa con tre opere alla grande Mostra: “Tra Rivolta e Rivoluzione, immagine e progetto”. Nel 1981 viene invitato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma alla Mostra ”Arte e Critica”.

Nell’estate 2013 nel prestigioso Museo Carlo Bilotti di Roma espone il ciclo “Spaesaggi”, 45 opere che rappresentano l’ultima tappa di una lunga e inquieta ricerca di un artista fedele testimone della disillusione e dello spaesamento. Nel settembre 2000 è stato nominato Accademico dell’Accademia Nazionale di San Luca.

Franco Mulas, 1968

Franco Mulas, L’immaginazione non ha preso il potere, 1969

Mulas non si faceva etichettare, non rappresentava ma interpretava il presente. Come scrive Tommaso Di Francesco in una delle presentazioni della mostra romana, Mulas non è stato il pittore del Sessantotto, “ma era sessantotto lui stesso, protagonista con altri milioni di esseri umani che in tutto il mondo, scendevano in piazza e dentro le loro esistenze, a riaffermare che ribellarsi è giusto”. A questa sua coerenza è sempre rimasto fedele. Ha cambiato i soggetti, lo stile, il modo di usare i colori e impastarli. I colori si sono via via mescolati e dalla precisione fotografica degli anni ’70 si è passati ad una tavolozza più lavorata, talvolta astratta. Dalle montagne con le cascate, si è passati a paesaggi spacchettati, inseriti su mattoni sovrapposti, fino ad arrivare agli “spaesaggi”. L’oggetto naturale è catturato ma rivisto con la sua visione personale: l’albero (come quello in onore di Mondrian), le radici, le foglie si trasformano, si trasfigurano appunto in suggestioni cromatiche.

Franco Mulas, Battaglia navale

Franco Mulas , Incontro,1985

Franco Mulas, Pala n. 3, 2021

Franco Mulas , ciclo “Big Burg”

Se n’è andato non solo un grande artista ma un testimone e interprete della società italiana del secondo dopoguerra che ne catturava complessità e contraddizioni

Franco Mulas, Azzurro rosso giallo, 2005

Enrico Colombotto Rosso (1925-2013)

Artista attivo sin dagli anni ’50 Enrico Colombotto Rosso è considerato uno dei maggiori protagonisti dell’arte del Novecento; artista poliedrico fu poeta e scrittore, scenografo e costumista, fotografo e illustratore, nonché pittore.  La sua arte, espressionista e simbolista al tempo stesso muove dall’idea dell’uomo teso tra l’incerto e il nulla, tra figure spettrali, esseri mostruosi e creature deformi che sono essenzialmente traslazioni visive e visionarie di quel malessere esistenziale dell’individuo e della società in cui è inserito.

Nasce a Torino (con il fratello gemello Edoardo) il 7 dicembre 1925 da madre toscana e padre ligure. Fin da bambino manifesta la propensione per il disegno e studia da autodidatta le tecniche espressive. Bocciato per ben due volte all’ammissione all’Accademia Albertina, tra i 15 e i 19 anni frequenta una piccola cerchia di poeti e letterati, scrive poesie e diventa protagonista dell’ambiente culturale piemontese ; fu componente del gruppo torinese Surfanta (Surrealismo e fantasia)

Colombotto Rosso con Léonor Fini 1958. Foto di André Ostier

Nel 1948 incontra Mario Tazzoli, banchiere e appassionato di pittura, col quale stringerà una lunga amicizia e aprirà a Torino la galleria “Galatea” in via Viotti, nei locali dell’antiquario Filippo Giordano delle Lanze, dove verranno trattati artisti del calibro di Giacometti, Bacon, Balthus, Klimt e Schiele.

Colombotto Rosso, Prato fiorito con figure e gatto bianco

Sul finire degli anni ’40 inizia anche a viaggiare e, a Parigi, entra in stretta amicizia con Leonor Fini, cui rimane legato fino alla morte di lei, e stringe legami con Max Ernst, Stanislao Lepri, Dorothea Tanning, Jacques Audiberti, personaggi padroni già della scena internazionale e molto vicini a lui per la loro espressione artistica.

Colombotto Rosso, l’uovo, primi anni 70

Enrico Colombotto Rosso, donna in negligè, anni 60

“Bambola e arabeschi”

Nelle opere di Enrico Colombotto Rosso la bellezza risulta contaminata dal malessere, deformata dall’alito della morte: nella sua deformazione però essa si esalta in una sorta di elegante nobiltà rappresentativa; compaiono nelle sue opere megere e vergini, figure e volti maschili e femminili, bambole, gatti, esseri mostruosi su tutto ciò che era utile per imprimerne le tracce: tele, carta da pacchi o di giornale, spartiti musicali, fogli di carta velina. Pochi colori, generalmente cupi o semplici disegni raffigurano onirico e grottesco e si ritrovano anche nelle scene e nei costumi realizzati per alcune opere teatrali, tra le quali: “Danza di Morte” di Strindberg, “Il gioco del Massacro”, di Jonesco e “Salomè” di Wilde

Enrico Colombotto Rosso – L’urlo (1957)

Enrico Colombotto Rosso – Ecce Homo

Enrico Colombotto Rosso, diavolessa

Colombotto Rosso, Gatto azzurro

Colombotto Rosso, Volto

“La Madonna del gatto”, 1965

Nel 1991 Colombotto lascia Torino per stabilirsi definitivamente a Camino, in provincia di Alessandria, dove inizia una nuova vita di intenso lavoro artistico, occupandosi molto meno del mercato e delle mostre. Crea le sue opere nella misteriosa ed affascinante casa del Monferrato, coltivando il suo fantastico giardino sempre colmo di fiori bianchi , cimitero di ricordi e di gatti che lo hanno accompagnato nell’arte e nella vita quotidiana (celebri i suoi gatti raffigurati a china). Il poeta e amico Raffaele Carrieri la definì “un bordello di lusso, ma senza puttane”

È morto il 16 aprile 2013, all’età di 87 anni, all’ospedale Santo Spirito, di Casale Monferrato dove era stato ricoverato per disturbi cardiaci.

“Questo giovane cacciatore di scimuniti non si inginocchia davanti alla miseria umana, non la teme, non la divide, non l’ama, non l’intende, dunque non può redimerla nella finzione dell’arte, ma è ossessionato da quell’odor di morte, di tessuti consunti, di nosocomio, di aborti nascosti, di eredità maledette che si sprigiona dai bugi in fermento, dai sangui pigiati, dai terrori panici, dai sogni che si ha paura di non dimenticare, e la sua pittura è lo specchio, di quell’ossessione, rigorosamente fedele … Enrico, tuttavia, è un amante della gioia. Egli ha, inoltre, una vera passione per le maschere, e io sospetto un gioco egoistico, sebbene di qualità rara. Una giornata di conviti a Parigi o a Roma, e una giornata in un manicomio pieno d’ululati ad osservare e annotare, fanno un
medesimo gioco, quando sia un medesimo giocatore che convita e annota.”
Guido Ceronetti, Enrico Colombotto Rosso, in «Petronio», 1960.

il Picasso elvetico: Hans Erni (Lucerna, 1909-2015)

Nato a Lucerna nel 1909, figlio di un ingegnere navale, Hans Erni si formò dapprima come geometra e disegnatore, poi dal 1927 frequentò la Scuola di Arti Applicate di Lucerna. e all’inizio degli anni ’30, come molti artisti, si recò a Parigi, fortemente attratto dal cubismo, e si guadagnò da vivere disegnando i suoi primi manifesti; continuò la sua formazione all’Accademia d’arte di Berlino. Iniziò la sua attività pittorica sotto lo pseudonimo di François Grèques, aderendo per un certo tempo all’avanguardia internazionale prima col gruppo parigino Abstraction-Création, 1933 e in seguito in Svizzera con Allianz, 1937. Nel 1935, Erni espose alla mostra d’avanguardia “These – Antithesis – Synthesis” al Museo d’Arte di Lucerna e fa in modo che vengano esposte anche opere di Picasso e Braque. Ma con il murale “Svizzera, il paese delle vacanze dei popoli”, che creò per l’esposizione nazionale del 1939, non solo divenne famoso, ma iniziò anche lo sviluppo verso il popolare e graziosamente che gli negherà il riconoscimento dal mondo dell’arte.
Nonostante la sua copiosa produzione privata, privilegiò sempre le tecniche che permettono una larga diffusione, in particolare le arti grafiche (poster, francobolli, illustrazioni) e le realizzazioni monumentali (pittura murale, rilievi, mosaici), ponendosi al servizio di un impegno sociale dapprima segnato dal marxismo e in seguito sempre più diversificato.

Erni, Manifesto per l’esposizione “Hyspa”

La Svizzera ufficiale ha bollato Erni come traditore di questa convinzione: un ordine per disegnare banconote fu annullato per motivi politici, e gli fu impedita la partecipazione alla biennale d’arte di San Paolo. Sotto l’impressione del regno del terrore e del dogmatismo comunista di Stalin, Erni si allontanò poi dal marxismo, aprendosi la strada per una maggior popolarità. Ha ricevuto commissioni per murales e tappeti, rilievi, mosaici, sculture, francobolli, manifesti e illustrazioni di libri. Fu insignito della medaglia della pace delle Nazioni Unite nel 1983 e una medaglia d’oro dal Comitato olimpico internazionale nel 1992.

Hans Erni è stato un virtuoso fagocita, ha raccolto tutte le correnti artistiche del suo tempo, il cubismo prima,( attingendo da Braque e Picasso) e un po’ di surrealismo di Dalí; disegnò e graffiò energicamente le figure nei colori dello sfondo astratto combinando diversi linguaggi pittorici in una composizione complessiva metaforicamente significativa.

Erni, “Salvate l’acqua”, 1961, manifesto

Erni, “Alfabeto antropomorfo”, 1996, tempera su compensato.

Erni, “Guerra atomica no grazie”, 1954, manifesto

Erni, “Mstislav Rostropovitch”, 1981, gessetti su carta.

Hans Erni (1967) by Erling Mandelmann

“Non mi preoccupo di cose così irreali. Se rivolgessi la mia attenzione al pensiero di continuare ad esercitare un qualche influsso dopo la morte, invece di occuparmi dell’attimo della vita, sarei sulla strada sbagliata.

Bisogna essere capaci, all’ultimo istante, di rinunciare a tutto.”

Hans Erni

l’iperrealismo di Luigi Pellanda

L’arte è ovunque
sta a noi liberare la nostra sensibilità
per assaporarne la ricchezza interiore
che ci regala silenziosamente.


Luigi Pellanda

Luigi Pellanda è un affermato pittore italiano, nato a Bassano del Grappa nel 1964, le cui opere sono state esposte a livello internazionale e conservate in collezioni permanenti. Autodidatta e fortemente ispirato al Caravaggio, Pellanda dipinge usando la stessa tecnica per enfatizzare il contrasto tra ombra e luce. Nei dipinti ad olio iperrealistici si concentra su temi della natura come orchidee, conchiglie, vongole giganti che ricrea con dettagli sbalorditivi.

le sue nature morte colpiscono per la perfezione nella rappresentazione, per il realismo con cui pennella immagini di fiori, frutta e vegetali. Ma andando oltre la prima osservazione, l’affinaggio fa comprendere la complessità di ciò che appare.
Pellanda è giunto alla pittura attraverso un percorso complesso, cominciando da un laboratorio di ceramica, misurandosi nel silenzio dove il fuoco calcina le proprie emozioni in forme tridimensionali. Poi la folgorazione per l’incisione dopo la conoscenza dell’opera incisoria di Giovanni Barbisan.

In seguito la passione per la musica e la  fotografia si fonde col resto, percorre le terre del Brenta alla ricerca delle forme in cui si esprime la natura: fiori, alberi, animali. Individuato un soggetto, non si limita a catturarlo nell’immagine ma lo indaga, con infiniti scatti, per catturare l’attimo magico, il momento di grazia rappresentato dal perfetto equilibrio armonico tra oggetto, ambiente e luce.
Inevitabile quindi il passaggio ulteriore verso la pittura. Ogni sua tela risente della ricerca dell’equilibrio di luce e atmosfere come quella che affinava nelle sue ricerche in fotografia. Una pittura che racchiude la tridimensionalità delle ceramiche, le sottolineature dei segni grafici e l’armonia che deriva dalla sua passione musicale. 

Molto accattivanti le sue opere, attraggono anche per la tavolozza intensa e al servizio di un’attenta osservazione di luce ed ombra, trasmissione di dettagli particolareggiati da osservare con lo stupore che si trasforma spesso in desiderio tattile.

Luigi Pellanda, La teiera rossa

per ulteriori info e immagini visitate il suo sito: https://www.luigipellanda.com/galleria-opere

Alberto Martini (1879-1954)

“Vero artista è chi ha saputo creare un’opera […]: un’inattesa scoperta, così forte da resistere al supremo giudizio del tempo, un tempo umano di almeno un quarto di secolo, fatto storico che non si può né inventare, né cancellare, né improvvisare. […] Se l’arte antica, che noi tutti adoriamo, non fosse stata a suo tempo nuova, non sarebbe diventata antica e venerabile!”
Alberto Martini da “Vita d’artista” (1939-1940)

Alberto Giacomo Spiridione Martini, nasce il 24 novembre 1876 a Oderzo da un antica famiglia aristocratica trevigiana. Nel 1879 si trasferisce con la famiglia a Treviso dove il padre insegna disegno presso l’Istituto Tecnico Riccati. Tra il 1890 e il 1895 sotto la guida del padre, descritto da Vittorio Pica come suo unico vero maestro, inizia a disegnare e dipingere acquarelli e tempere di piccolo formato. Nel 1895 inizia la prima serie di illustrazioni a penna in inchiostro di china per il Morgante Maggiore di Luigi Pulci, che, tuttavia, presto abbandona per dedicarsi alle illustrazioni per la Secchia rapita (1895-1935) di Alessandro Tassoni


Nel 1896 inizia a illustrare il ciclo grafico per il Poema del lavoro. Nel 1897 Espone alla II Biennale di Venezia 14 disegni per “La corte dei miracoli” che verranno presentati l’anno seguente a Monaco e all’Esposizione Internazionale di Torino. Nel 1898 soggiorna a Monaco e lavora come illustratore per le riviste «Dekorative Kunst» e «Jugend».

Dello stesso anno l’incontro con Vittorio Pica in occasione dell’Esposizione Internazionale di Torino. Sarà il noto critico napoletano a sostenerlo d’ora in poi, proponendo la sua arte in ambito italiano ed europeo. Nel 1901 esegue il primo ciclo di 19 disegni a penna acquarellati per l’edizione illustrata de La Divina Commedia, lavoro commissionato a Martini da Vittorio Alinari per intercessione del solerte Pica. Partecipa alla IV Biennale di Venezia con i disegni per La secchia rapita: 38 vengono acquistati dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma.
L’onirico, il macabro, il grottesco e il surreale che Martini ritrova in Dante continuano a ispirarlo anche successivamente, tanto che nel 1940-41 propone le sue nuove produzioni grafiche ad Arnoldo Mondadori. Purtroppo, per motivi che esulano dalla qualità grafica delle sue opere, Martini non riesce a vedere pubblicati i suoi lavori né con Mondadori, né con l’editore Sadel di Milano. Solo nel 2008 il corpus di opere a soggetto dantesco di Martini vede le stampe nell’edizione di Mondadori Arte, a cura di Paola Bonifacio della Pinacoteca “Alberto Martini” di Oderzo.
Dal 1905 inizia a eseguire anche le tavole illustrative per i racconti di Edgar Allan Poe, a cui lavorerà sino al 1909 , inaugurando un periodo di grande intensità creativa nell’ambito della grafica a spunto letterario.

Alberto Martini. Purgatorio, canto XXIV. 1922.

Inferno – XXII, 1937

Acheronte (Inferno, III), 1937

Alberto Martini-Hop Frog-illustrazione per i Racconti di Edgar Allan Poe, 1907. Courtesy Galleria Carlo Virgilio

Nel 1912 incoraggiato da Pica, Martini si dedica alla produzione pittorica, facendo uso soprattutto della tecnica del pastello. Realizza le Sinfonie del sole (L’Aurora, La notte, I fiumi) e il pastello Farfalla gialla. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, lavora a 54 litografie intitolate Danza macabra, tramite le quali rivela il suo sentimento antitedesco, che stampate in formato cartolina, sono distribuite tra gli alleati come propaganda. Risale al 1919 l’interesse di Martini per il teatro: realizza 84 disegni a penna e acquarello e sei tavole a tempera per i costumi del balletto Il cuore di cera. Risale invece al 1923 l’idea di Martini del Tetiteatro: un teatro sull’acqua dedicato, come suggerisce il nome, alla dea del mare Teti. Deluso e amareggiato dall’ostilità dei critici italiani, che verso la fine degli anni Venti sembrano ignorare i suoi lavori, Martini si trasferisce a Parigi dove frequenta l’ambiente dei critici e dei letterati e trova numerosi estimatori della sua arte. Stringe amicizia con Solito de Solis, musicista e appassionato d’arte, che lo introduce nei salotti aristocratici parigini.

Alberto Martini

La sua grandezza e inimitabilità consiste soprattutto nel virtuosismo della penna e l’inchiostro di china con una tecnica così particolareggiata e ossessiva tale da far sembrare le sue tavole disegnate opere d’incisione, ponendosi come epigono del decadentismo e del simbolismo e precursore assoluto del surrealismo. “La mia penna è, a seconda dei casi, forte come un bulino e leggera come una piuma”, racconta l’artista. “I passaggi dal bianco al nero, la modellazione delle carni, dei veli, dei velluti, dei capelli, dell’acqua, delle nubi, della luce e del fuoco l’ottenevo con una finissima tessitura di tratti, che elaboravo con la penna riversata, poi punteggiando e infine ritoccando con la punta d’acciaio”.

Alberto Martini “Il Bacio”, 1915

Avvalora il suo carisma il carattere aristocratico, provinciale e cosmopolita al tempo stesso, dandy elegante nel vestire, bizzarro e scostante, altero nei comportamenti, fiero dell’aureola di seduttore di cui si seppe circondare.

Alberto Martini, Mètempsycosi plastica, 1930-Collezione privata

A questo indirizzo si può sfogliare il volume La Danza Macabra con le sue illustrazioni:

https://issuu.com/sanssoleil/docs/martini_muestra

Il video di seguito riguarda la mostra del 2021 sui disegni di Alberto Martini presso la Galleria Carlo Virgilio & C. di Roma presentata dal curatore Alessandro Botta, con Carlo Virgilio e Stefano Grandesso.

Alberto Martini

Se Martini non ha guadagnato nell’arte italiana del ‘900 il posto che meriterebbe è forse da attribuire alla sua predilezione per i temi grotteschi e per le atmosfere lugubri (è purtroppo risaputa la mala reputazione che il fantastico ha scontato, e sconta, nel nostro paese). Non giovò nemmeno l’eclettismo della sua produzione, che rifuggeva da qualsiasi etichetta o facile catalogazione: l’originalità, che egli riteneva un punto di forza, fu paradossalmente ciò che lo costrinse a rimanere “un artista periferico e occulto, continuando ad aggirarsi, come un’anima dannata, tra le zone inesplorate della storia dell’arte” (Barbara Meletto, Alberto Martini: L’anima nera dell’arte).

Pierre Soulages (1919-2022)

Nel 2014 l’ex presidente francese Francois Hollande definì Pierre Soulages “il più grande artista vivente”. Il pittore francese Pierre Soulages è morto oggi, 26 ottobre 2022 all’età di 102 anni.Era nato a Rodez (Aveyron) nel 1919. A 18 anni, durante un breve soggiorno a Parigi, Soulages visitò due esposizioni, Cézanne e Picasso che saranno per lui una rivelazione. Fu allievo alle Belle Arti di Montpellier e nell’immediato dopoguerra si dedicò esclusivamente alla pittura. Andò a vivere a Parigi, poi, nel 1959, si fece costruire un atelier a Sète e divise il suo tempo tra i due luoghi. Molto presto affinò il linguaggio della sua arte; disegni a china, disegni a carboncino, pitture astratte, segni calligrafici neri o bruni s’impadronivano della superficie bianca, sviluppando nei suoi dipinti i grandi principi di astrazione, di riflessioni oscillanti tra colore e materia, e divenne noto proprio per i suoi dipinti dalle infinite sfumature di nero, alcune molto vicine al risultato fotografico.


Partecipò a molte esposizioni collettive a partire dal 1947, in Francia ed all’estero. A partire dal 1949 e fino a tutt’oggi, le sue opere sono state messe in mostra in numerose esposizioni personali, Musei e gallerie. Nel 1996, dopo Séoul e Pechino, il Museo d’Arte Moderna di Parigi ha organizzato un’ampia retrospettiva di Soulages.


L’artista, parallelamente alla pittura, ha lavorato per il teatro. Ha realizzato, agli inizi degli anni ’50, un’opera incisa e litografata di grande rilievo. Nel 1957 scoprì la tecnica del rame eroso che s’inscriverà fortemente nella sua arte grafica. Realizza degli arazzi, concepisce le vetrate per l’abbazia di Sainte-Foix di Conques. Nel 1976, Soulages si approccia alla scultura e vediamo apparire i suoi primi bronzi.

Oskar Kokoschka, uno degli artisti degenerati

Oskar Kokoschka (1886-1980) nacque a Pochlarn, città nel distretto di Melk nella Bassa Austria, ed è stato incisore , artista , drammaturgo e insegnante; senza dubbbio uno dei maggiori artisti del ‘900. La sua arte è una sintesi armoniosa tra la purezza formale, il colore vivo e coinvolgente, e il tormento dei sentimenti, stile che rifiuta chiaramente ogni ideale di grazia creando visoni fra incubo e realtà. Kokoschka divenne famoso anche per la sua relazione tormentata con Alma Mahler, per la quale dipinse la bellissima tela intitolata “La sposa del vento”.

Oskar iniziò a dipingere a quattordici anni, attratto dalle opere barocche di Franz Anton Maulbertsch, dal nuovo stile di Gustav Klimt e dalla pittura incisiva di Lovis Corinth. Nel 1910, Walden, fondatore della rivista d’avanguardia berlinese Der Sturm, lo convinse a trasferirsi a Berlino, dove l’artista iniziò a curare il Ritratto della settimana, divenendo il primo illustratore della rivista. Affascinato da Freud, si lasciò influenzare dalle sue ricerche sui sogni e il subconscio. La pittura di Kokoschka diviene più reale, dura, senza filtri tanto da essere definita “selvaggia”. Quello che premeva all’artista era rappresentare l’angoscia ed i problemi dell’uomo e della società; la sua opera pittorica influenzò fortemente Egon Schiele.

Oskar Kokoschka, il cavaliere errante, autoritratto, 1915
Kokoschka, Alma Mahler 1912

Dopo il soggiorno a Berlino Oskar fa ritorno a Vienna dove intreccia la nota tormentata relazione con Alma Mahler, vedova del celebre compositore e direttore d’orchestra Gustav Mahler, oggi considerata la più grande musa del XX secolo. Viennese,bella, brillante, aristocratica, promettente musicista, ebbe relazioni con uomini famosi come Klimt, Mahler stesso e, dopo Kokoschka, l’architetto Walter Gropius e lo scrittore Franz Werfel.

Oskar Kokoschka, la sposa del vento, 1914

A lei dedica il dipinto più famoso, La sposa del vento, dove rappresenta i suoi dolori, le sue paure; il quadro infatti segna la fine di un amore tanto travolgente e passionale quanto tormentato e travagliato . È un periodo di crisi per Kokoschka che decise di arruolarsi. Subito dopo la guerra insegnò per qualche anno all’Accademia di Dresda. Tornato a Vienna, dopo l’annessione tedesca dell’Austria si rifugiò a Praga ma il successivo regime nazista confiscò la maggior parte delle sue opere. La sua arte fu considerata degenerata e l’artista fu costretto ad emigrare a Londra.

Oskar Kokoschka, femme en bleu
Oskar Kokoschka, View of Constantinople
Oskar Kokoschka, view of Amsterdam
Oskar Kokoschka, Il duomo di Firenze

Di particolare importanza è anche il dipinto di satira politica L’Uovo Rosso del 1949-1941 in cui è raffigurato un pollo arrosto ( la Cecoslovacchia) che vola via e depone sul piatto un uovo rosso. Nello sfondo Praga brucia. Al tavolo siedono Mussolini e Hitler con un elmo di carta, sotto al tavolo c’è un gatto con un cappello da Napoleone e una coccarda e dietro, con la coda che forma il segno della sterlina, il leone inglese su di un piedistallo con l’iscrizione: ‘In pace Munich’. Il quadro fu a suo modo profetico.

Dopo la guerra, si stabilisce in Svizzera, sulle rive del lago di Ginevra, continuando l’insegnamento presso l’Accademia internazionale estiva di Strasburgo. Fra il 1967 e il 1968 esegue alcune opere contro la dittatura dei generali in Grecia e contro l’occupazione russa della Cecoslovacchia. Nell’ultimo decennio di vita continua a lavorare dedicandosi principalmente a vedute di grandi città e nel 1973 nella sua casa natale, viene inaugurato l’archivio Oskar Kokoschka. Muore il 22 febbraio 1980, novantaquattrenne, in un ospedale di Montreux, nella sua adorata Svizzera.

Augusto Daolio , non solo Nomadi

«Mi piace pensare che il linguaggio e la possibilità di esprimersi creativamente, artisticamente sia una specie di necessità. Io la pratico anche come una piacevole disciplina. Dal dipingere sono stato scelto, ma non so perché questo sia avvenuto. Sono stato fortunato, ho incontrato la musica, ho incontrato la poesia, ho incontrato la pittura, le parole. Voglio dire che non ho cercato mai niente». Sono le parole che l’indimenticabile Augusto Daolio ha usato per delineare una delle grandi passioni della sua vita: quella per la pittura.

Tutti o quasi conosciamo Augusto Daolio come il fondatore e la voce dei Nomadi, ma non tutti sanno che è stato anche un eccellente pittore e disegnatore di genere surrealista. La città di Ferrara a trent’anni dalla scomparsa gli dedica la mostra antologica,una selezione di 56 lavori dell’artista, olii e chine colorate, realizzati tra il 1973 e il 1992 . Il respiro della natura, alla Palazzina Marfisa d’Este. In mostra dal 18 giugno all’11 settembre 2022 .

«I disegni di Daolio – dice Vittorio Sgarbi – sono le evocazioni di emozioni che sono dentro di noi e che non dobbiamo faticare a riconoscere. Augusto è andato lontano, è andato sulla luna ma gli sarebbe bastato stare a Novellara con la stessa fantasia di un grande pittore come Lelio Orsi, evocato da Pietro Di Natale, che ha dipinto nella Rocca un padiglione di verzure con il Ratto di Ganimede. Gli amori, i desideri, le lunghe notti d’estate ritornano, e un poeta lascia interrotto il suo sogno perché lo continui un altro. Così è stato per Augusto Daolio».

«​​La musica la coltivo come mezzo sociale per comunicare con gli altri: ansie, rabbia, amore, idee e progetti.
La pittura per scavare dentro me, per interrogarmi,
per lo stupore, la meraviglia e il segreto»


Augusto Daolio

Achille Laugè pittore e litografo postimpressionista

Una ventina di giorni fa ho avuto il piacere di visitare un’importante retrospettiva sul pittore francese Achille Laugè (1861-1944) alla Fondazione dell’Hermitage di Losanna.
Artista profondamente impegnato in Occitania, di cui era originario, Laugé è noto per il suo singolare percorso all’interno del movimento post-impressionista.

La mostra, che comprende circa ottanta opere e copre l’intera carriera di Laugé, mette in luce l’ originalità di questo pittore legato ai temi della vita quotidiana e dotato di una sensibilità eccezionale. Il suo stile raffinato e semplice allo stesso tempo, si avvale dei plen air dei dintorni della sua casa in Cailhau, dei fiori del suo giardino, dei ritratti dei suoi cari. Con una tecnica pura caratterizzata da tre colori primari giustapposti in piccoli punti vicini al divisionismo

Nato da una famiglia di contadini, Laugé abbandonò gli studi di farmacia per entrare nell’École des beaux-arts di Tolosa, dove divenne amico di Antoine Bourdelle, per poi continuare i suoi studi a Parigi e condividere la bottega di Aristide Maillol. Nel 1886, al Salon des Indépendants, Laugé scopre l’arte di Georges Seurat, una vera rivelazione per lui. Nel 1892, si spostò a Carcassonne ormai convertito al colore puro spalato.

Solo davanti alla luce abbagliante del sud, Laugé sperimenta la teoria dei colori di Seurat e Signac. Crea sontuose nature morte, dove bouquet di papaveri e margherite si accompagnano a frutta matura e rami di mandorli in fiore. Come Monet Laugè lavora sulla serie, rappresenta senza sosta scorci delle strade di Cailhau. I suoi paesaggi, rigorosamente costruiti, sono fedeli alle sfumature di luce, ai passaggi stagionali in tutte le loro sottili variazioni. Osservando queste strade l’artista crea composizioni in stile minimalista che emanano un dolce sensazione di tranquillità, di un senso della composizione molto geometrico e un gusto pronunciato per gli ampi spazi.

La sua tecnica caratterizza anche i ritratti degli anni 1896 – 1899 e va di pari passo con la delicatezza che permea tutta la sua opera. Tra il 1905 e il 1910 ammorbidisce il suo tocco continuando a utilizzare una tavolozza ridotta a pochi colori. Tra il 1920 e il 1930 trascorre le estati a Collioure, un alto luogo di ispirazione per gli artisti di inizio secolo. La vita di Laugé termina nel 1944; senza aver mai smesso di lavorare ha mantenuto la peculiarità della sua tavolozza e la libertà della sua caratteristica vivace.