Giuseppe Lipparini (1877-1951), bolognese, discepolo del Carducci, insegnante e giornalista, collaborò ai principali giornali e periodici; i suoi articoli furono in parte raccolti nei volumi “Passeggiate” del 1923 e “Divertimenti” del 1930. Tradusse gli “Epigrammi di Marziale” e scrisse liriche, romanzi e tragedie; professore per molti anni all’Accademia di Belle Arti di Bologna, pubblicò numerosi volumi di poesia e di narrativa nei quali espresse, seppure attraverso influssi di altri autori una sua sensibilità verso il paesaggio e la campagna.
Notevoli “I canti di Mèlitta” del 1910 che risentono della lirica dannunziana ; ne “I racconti di Cutigliano” del 1930 si avverte invece l’influenza pascoliana. Appartenne al neoclassicismo, movimento letterario che cercava di rappresentare la realtà esaltando i valori degli scrittori latini e dell’Umanesimo e si proponeva di conservare la tradizione letteraria italiana da Dante al Leopardi.
In “Arte e Stile”, pubblicato nel 1930, Lipparini dice: “…in verità, per noi Italiani, il latino non deve essere una lingua morta. È la lingua dei padri Romani, è l’italiano antico dei dominatori del mondo”. Riguardo la lingua italiana dice: “Uno scrittore è tanto più grande, quanto più sono vive le parole di cui egli si serve. In Dante, nell’Ariosto, nel Leopardi, nel Manzoni le parole vivono di vita propria, si illuminano e si aiutano l’una con l’altra. Ad ognuna di esse corrisponde un’idea, e noi vediamo, pensiamo, sentiamo tutto quello che l’autore ha voluto farci vedere, pensare, sentire. Ma questo non accade negli scrittori mediocri. Noi diciamo senz’altro che essi sono “noiosi”, perché nei loro scritti le parole sono fiacche, monotone e quasi morte”.
Dal numero trimestrale della rivista “Poesia” del 1909 di Filippo Tommaso Marinetti ho estrapolato una parte delle poesie lussuriose; fanno parte dei Canti di Melitta, versi dalla forma classica che riescono però ancora a stimolare l’animo con le loro cadenze erotiche e sensuali.
A CEBÉTE.
Mèlitta sono, la figlia di Polidamante liberto,
e per le piazze d’Atene risplendo fra tutte l’etère.
Venere stessa mi diede le membra e la bella figura:
e le benigne Grazie mi empirono il cuore di canti.
Tale io tocco la cetra allorché primavera compare,
e pei boschetti sacri io sfido a cantar gli usignoli :
quando nel seno profondo mi giungon le punte d’Amore,
e il giovinetto amato mi attende languendo su l’erbe.
Pura incorrotta fui un tempo, negli orti paterni
lungo il Cefisso ombroso, in vista all’acropoli sacra.
Rara appariva appena la prima lanugine ; il seno
morbido e liscio come quello d’un pingue fanciullo;
rigida Tanca, e il femore un poco sporgente sui fianchi
oh, non sembravo allora, no, la Callipigia Afrodite!
Lungo il Cefisso ombroso al rezzo dei mirti giacevo,
come colei che aspetta: e ahimè non sapevo che cosa.
Targeliòne, il mese dolce ai temperati tepori,
lungo le siepi mi aveva composto gran serti di rose.
Dolce era l’aria, più dolce la notte il lucor della luna
Dalla paterna casa uscivo a la riva del fiume,
e denudata allo specchio dell’acqua miravo le membra
agili. Tremolavano nell’onda profonda i candori,
e le mie braccia distese perdevansi lungi col fiume,
mentre brillavano come vaganti pianeti i miei occhi.
Scesi talvolta nel fiume, di giorno, e la madre era meco.
Tutta mi davo all’amplesso dell’acque, e pensavo le storie
delle fanciulle antiche rapite dai fiumi amorosi.
Ahi, che passato era il tempo in cui tra le selve su l’onde
gl’ imperituri iddii violavan le donne mortali.
Onde, tornando a la riva, le membra più fiacche pe ‘l bagno,
languida sulla sabbia piegavo tremando i ginocchi,
ed invocavo il vento perchè mi rapisse con lui.
Vidi di là da le siepi, un giorno di Targelióne,
un giovinetto, bello al pari di un dio immortale.
Sola vagavo tra i lauri, tra i mirti, tra i folti rosai,
e mormoravo in cuore un canto di Saffo la bella.
Vidi di là da le siepi il mio giovinetto fatale :
pallida come la neve sorrisi appoggiata ad un lauro.
Agile come un cervo balzò con un lancio nell’orto :
tutta mi strinse al seno, e poi mi baciò su la bocca.
Fu per quel bacio un incendio che m’arse per tutte le membra
Quando la sera calò mi chiusi nel mio ginecèo,
e sul lettuccio, sola, piangevo con lacrime molte.
Arse le fauci avevo per inestinguibile sete :
brividi lunghi alle reni, e fremiti al ventre lascivo ;
urgere il sangue sentivo al petto, e gonfiarsi i due seni.
Tutta la mia persona, nel grande delirio d’amore,
come un fuscello tremava, che s’agita scosso dal vento.
Mèlitta fu quella notte, nell’orto fra i caldi sentori,
la prima volta preda del furto rapace d’amore.
Sanguinar la mia carne con intollerabile strazio
feci ; e la folle arsura in braccio a colui maledissi.
Folle ! la notte dipoi tornarono i cupi furori :
ebbra discesi ancora laddove il mio dio m’aspettava.
Ratti passarono i giorni: e chi rammentava quel male?
Solo il piacere, oramai, a me concedeva Afrodite.
Quando tornò l’autunno e il mese dei grappoli dolci
(e il quindicesimo anno mi s’era perduto nel tempo),
abbandonai la casa del padre e divenni di tutti.
Ben cinque mine io prendo da quegli che tutta mi vuole :
chè su la terra intiera non v’è giovinetta più bella,
e per il vasto mare la fama di Mèlitta vola.
Solo Cebéte, il figlio del caso, o forsanco di un dio?
quando mi vuol mi possiede, e sol per il prezzo d’amore.
Ecco, Cebéte attendo nell’atrio fulgente di marmi.
Caro, non sono più quella che avesti nell’orto del padre,
rigida e pura come un giovine pioppo a febbraio.
Ma d’ogni parte a me la morbida carne fiorisce :
erti i bei seni, i fianchi lunati, le cosce possenti,
florido il vello d’oro, più raro di quello d’Eèta.
Onde io temo un eroe che armato con nuovi Argonauti
qui, su le spiaggie d’Atene, non me lo venga a rapire.
Molti di già sul mio seno passarono uomini, molti
del loro immenso amore parlaron con rotte parole.
Pure, se attendo te, ancora mi brucian le fauci:
ancor con brividi lunghi si piegano in arco le reni.
Che non poss’ io tenerti per sempre col capo fra i seni,
quando ti vedo gli occhi morenti celarsi nel bianco :
e di te piena, nel cuore avendo appagata la brama,
cedere al sonno, e cosi dentro le tue braccia morire?
Da:I canti di Mèlitta, 1910
Autore Giuseppe Lipparini
Nell’immagine: Tondo attico a figure rosse (510 a.C.)
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